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Franco Garelli "Credere senza appartenere"

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Rocca n° 6/2025

Mi ha sempre colpito la scarsa considerazione che si ha nella nostra società di quella che in genere viene chiamata la ‘religiosità diffusa’, mentre altri la definiscono immediatamente come ‘grigia’. Si tratta di un modo di vivere e di interpretare la fede a cui perlopiù si attribuisce poco credito, ritenendola ambigua, discontinua, incoerente. Molti preti e molta Chiesa patiscono questo profilo religioso, a metà strada tra il “vorrei ma non posso”, tra “sì, in fondo ci credo, sono tendenzialmente ‘cristiano’, ma più di tanto non riesco ad impegnarmi”. Si tratta di una presenza religiosa densa di molte assenze, di un’intenzione di fede che non sembra mai esprimersi in un vissuto. Molti operatori del sacro lo ritengono ormai un legame religioso decaduto, tipico di un cristianesimo nominale col quale è difficile rapportarsi per la carenza dei fondamentali umani e religiosi che l’identità cristiana richiede; per cui preferiscono scelte pastorali più definite, dedicandosi al piccolo resto di un cristianesimo che ‘ci crede’, piuttosto che cercare di recuperare alla fede e alla Chiesa questo ampio gruppo di quasi fedeli. Troppe mediazioni culturali e religiose si devono fare per ‘raddrizzare’ queste situazioni ambivalenti, per ridare slancio a una prospettiva di fede largamente condizionata da una religiosità generica e tradizionale. 

RELIGIOSITÀ: CULTURALI, ‘DI FAMIGLIA’, DI TRADIZIONE 

Ma la cosa più sorprendente è che anche vari studiosi sembrano poco interessati a questo tipo di religiosità, che pure è diffusa alle nostre latitudini e fa parte del panorama religioso contemporaneo che essi sono chiamati a descrivere e comprendere dal punto di vista professionale. La scarsa attenzione a questa religiosità debole e labile può essere in questo caso ricondotta a due ragioni ‘scientifiche’. Da un lato c’è chi nega ad essa un qualche status o significato religioso, ritenendo trattarsi di un modo di essere più prossimo all’ateismo che alla credenza; o di un orientamento che si presenta come l’ultimo gradino (o come l’anticamera) di una coscienza ormai secolarizzata. Dall’altro lato, prevale la tendenza – in una parte degli studiosi – a guardare in modo binario alla realtà sociale, a leggere la situazione religiosa in modo polarizzato, dando rilievo più ai profili religiosi definiti (alla dicotomia credenti consapevoli / atei convinti, o praticanti assidui / mai praticanti) che alle situazioni umanamente e religiosamente intermedie. Come se queste ultime non fossero prevalenti, non solo nel campo della religiosità, ma anche nelle dinamiche della vita. Ricordo al riguardo le lunghe discussioni fatte con colleghi stranieri su questo tema, quando – nell’analisi della situazione religiosa dei diversi Paesi europei – li invitavo a tener presente che ovunque il barometro religioso ha molte gradazioni e che – soprattutto oggi, nella società altamente differenziata – non tutto è riconducibile alle categorie dei pochi credenti impegnati (o praticanti assidui) e dei molti “non credenti”. 
Vorrei spezzare una lancia ‘sociologica’ nei confronti di questo tipo di religiosità che – anche nel nostro Paese e anche per il cristianesimo, come per altre fedi religiose – rappresenta la componente credente più diffusa. Da tempo definisco questi credenti (o ‘quasi credenti’) come gli esponenti di religione “culturale” che ha dei tratti ben distinti e in parte curiosi. 
Ovunque i ‘virtuosi della religione’ (per richiamare un termine caro a Max Weber) sono una realtà rara, mentre è diversa la religiosità della maggior parte delle persone che dicono (o credono) di credere, a cui più sembra applicabile il detto evangelico “gente di poca fede”. C’è una indubbia parentela tra i cattolici culturali di cui qui si parla e gli ‘ebrei di famiglia’ che costituiscono la metà circa del mondo giudaico a livello mondiale (e che si distinguono marcatamente dagli ‘ebrei osservanti’); così come c’è una somiglianza di famiglia tra il cristianesimo culturale e la quota di musulmani che (accanto a quelli assai convinti) si dichiarano tali per il luogo da cui provengono, per l’identità dei loro genitori e nonni, per le tradizioni e la cultura in cui sono cresciuti; la cui presenza viene in genere offuscata dall’idea – diffusa nei media e nell’opinione pubblica – che tutti i musulmani che giungono da noi siano religiosamente più impegnati dei cristiani. 

I CATTOLICI CULTURALI 

I ‘cattolici culturali’ sono quanti mantengono un’identità cristiana più per motivi ambientali o etnici che spirituali, ritrovando a questo livello un riferimento che offre sicurezza in una società sempre più precaria e in cui si affermano identità religiose diverse. É l’area – potremmo definirla – della “penombra cattolica”, che è sempre esistita, ma che oggi risulta più estesa rispetto al passato come reazione ad una situazione nazionale in cui i valori della tradizione sembrano minacciati dalla presenza di altre culture e fedi religiose. 
Si può avere un rapporto labile e ambivalente con la fede e la Chiesa, ma nello stesso tempo ritenere che la religione sia un valore di fondo della propria famiglia di origine, essere favorevoli all’educazione religiosa dei figli, rivolgersi agli ambienti religiosi per solennizzare le tappe più importanti della vita. La Chiesa nei suoi piani alti, pur con qualche eccezione, continua a fare problema, ma non mancano dal basso delle testimonianze di rilievo soprattutto nel campo della carità; e inoltre si apprezzano di tanto in tanto dei richiami da quel versante sulle cose che contano. 
Non so se sia plausibile applicare a questo insieme di ‘credenti’ o ‘quasi credenti’ la distinzione evocata a suo tempo dal cardinal Martini con il binomio “pensanti / non pensanti”. In prima istanza verrebbe spontaneo ritenere che i cattolici ‘culturali’ o ‘anagrafici’ siano persone non particolarmente riflessive, visto che il loro legame religioso sembra più un retaggio della tradizione che il frutto di un’opzione consapevole. Tuttavia, credo occorra essere rispettosi delle diverse condizioni in cui le persone si rapportano alla questione religiosa, senza avere un metro di giudizio tarato soltanto sulle alte temperature. Non è affatto detto, infatti, che quanti occupano la parte meno centrale dell’albero della fede o della Chiesa (ad es. il tronco o la corteccia, rispetto alla linfa) non abbiano anch’essi una domanda di senso che merita di essere accolta e valorizzata. Una domanda di senso che può essere non priva di limiti, ma che perlopiù rispecchia l’esperienza vissuta nella propria biografia, le figure e le proposte incontrate o ‘non incontrate’ nel corso degli anni, i tratti del contesto in cui si è cresciuti. Sta di fatto, come emerge da alcune ricerche, che anche i ‘cattolici culturali’ non sono insensibili nei confronti di richiami religioso-spirituali capaci di interpellare la loro sensibilità; espressi con un linguaggio loro familiare, forse più affettivo che razionale; rispettoso dei percorsi tortuosi e degli alti e bassi (sia in termini di fede che di etica) di cui è ricca l’esperienza umana. 

CONTESTI ED OCCASIONI 

La presenza di questa religiosità ambivalente si riscontra in ogni dove. Tracce di essa si possono trovare nel “popolo” cosiddetto “delle colonne”, nelle persone che in genere stanno al fondo delle chiese durante i funerali e i matrimoni, per un rito a cui devono presenziare più per ragioni sociali o familiari che per altro. 
Perlopiù tutto fila liscio in una generale indifferenza, condita qua e là da momenti di brusio. Ad eccezione del fatto che nella cerimonia vi siano dei momenti toccanti, che il prete ad esempio nell’omelia dica qualcosa di particolarmente significativo. Allora, il silenzio semina domande, qualcuno può sussurrare al proprio vicino una frase che pur avendo del velleitario indica un moto dell’animo: “Beh, con un prete di questo tipo nella mia parrocchia, forse andrei in chiesa tutte le domeniche!”. 
Un altro esempio mi giunge da un’esperienza personale. Anni fa, insieme a colleghi ho preso parte al funerale di uno studioso di orientamento laico che per volere della famiglia è stato celebrato in chiesa. La partecipazione umana è stata calda, quella religiosa pressoché assente. Alla fine, mi sono rivolto a Gianni Vattimo, un amico vicino di banco in quella circostanza, dicendogli che non aveva senso organizzare riti di commiato come quelli, era di gran lunga preferibile una funzione civile in un luogo pubblico. Ricorderò sempre la sua risposta: “Franco, non fare il talebano, noi non sappiamo come Dio parla alle persone e cosa si nasconde nel cuore degli esseri umani”.










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