Vito Mancuso “Perché il Conclave ci tocca nel profondo in una società in cui siamo solo spettatori”
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In quest’epoca guardare è diventato fondamentale al punto da far parte ormai della nostra natura. Ma l’elezione di un Papa è molto di più: un evento politico e soprattutto di fede, che coinvolge credenti e non.
Cosa pensare della grande attenzione mediatica al Conclave? È attenzione per la cosa in sé o per la dimensione spettacolare che essa contiene? Tutto il mondo lo guarda, ma cosa guarda? Questa attenzione dei media e delle persone verso un fatto eminentemente religioso quale l'elezione del nuovo Papa ribadisce anzitutto il fatto che tale elezione non è solo un fatto religioso ma anche politico.Nulla di nuovo, è sempre stato così nella nostra storia, per lo meno a partire dal IV secolo, per la
precisione dal 380, l'anno in cui l'imperatore Teodosio fece del cristianesimo la religione ufficiale
dell'Impero romano vietandone ogni altra. Sempre, quando si eleggeva il nuovo Papa, il potere si
faceva attento, e Imperatori e Re «scendevano in campo» (per riprendere questa celebre espressione
della storia recente della politica italiana) e talora lo facevano così pesantemente da dare origine a
una serie di scontri con il potere ecclesiastico ricordati dalla storiografia come "lotta per le
investiture".
La differenza rispetto al passato è che allora i Papi scendevano in campo a loro volta nelle faccende
politiche e dicevano la loro non senza incidere e talora decidere, mentre oggi non mi risulta che il
Romano Pontefice abbia un peso significativo neppure per l'elezione del sindaco di Roma,
figuriamoci sul resto. Rimane comunque il fatto che ancora adesso ai potenti della politica del
mondo intero interessa chi sarà la guida della Chiesa, e questo perché avvertono che un certo tipo di
potere la Chiesa ancora l'esercita, quindi l'elezione del nuovo Papa, nonostante il declino del
cristianesimo, oltre a essere un evento religioso è anche, com'è sempre stata, un evento politico di
livello mondiale.
Ciò che invece è peculiare dei nostri giorni è, per la comunicazione mai così pervasiva, la
spettacolarità. Il che mi porta a rinnovare la domanda: l'attenzione mediatica al Conclave è
attenzione per la cosa in sé o per la sua dimensione spettacolare? Noi esseri umani siamo
strutturalmente definibili come spettatori, siamo "homo spectator": solo così si spiegano i riti,
religiosi e laici, quali celebrazioni, processioni, teatro, giochi olimpici, giochi delfici, eccetera, fino
al prossimo Conclave. Siamo nati per vedere; anzi, per guardare; e quando, guardando, rimaniamo
così coinvolti da poter dimenticare o superare l'affanno dell'esistenza anche solo per un momento,
ne veniamo catturati in modo irresistibile. Questo vale dovunque e sempre per tutta l'umanità.
Feuerbach disse: «L'uomo è ciò che mangia», ma siccome la nostra psiche si nutre perlopiù di
immagini (oggi film, sport, serie tv, social) si può ben dire che l'uomo è ciò che guarda. La qualità
di ciò che guardiamo costituisce la qualità del nostro essere.
Nessuna società è stata così dominata dalla spettacolarità come la nostra, mai l'essere umano è stato
così integralmente "homo spectator" come siamo diventati noi che passiamo ore e ore a guardare gli
schermi su cui scorrono immagini di ogni tipo, diventate per molti più reali della vita reale. Le cupe
previsioni del filosofo francese Guy Debord che scrisse La società dello spettacolo nel 1967 si
stanno avverando: «L'intera vita della società si annuncia come un immenso accumulo di
spettacoli». Continuava: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione». Mario Vargas Llosa nel 2012 riprese a suo modo queste analisi nel saggio La
civiltà dello spettacolo. Ma cosa significa essere homo spectator? Noi non possiamo non essere
spettatori, visto che il guardare nutrendoci delle immagini fa parte della nostra natura: ma cosa
significa essere "prevalentemente", o addirittura "solamente", spettatori? Perché oggi sempre più
spesso in una situazione di pericolo, invece di intervenire e soccorrere, si pensa prima di tutto a fare un video e a "postarlo"? Tralascio la risposta e torno all'interesse verso il conclave ribadendo
l'interrogativo se l'interesse è per la cosa in sé o per lo storico spettacolo che rappresenta.
Questa grande attenzione mediatica al prossimo Conclave e a tutti i riti a esso collegati, dallo Extra
omnes allo Habemus papam, mi ha fatto venire in mente il seguente brano evangelico. Gesù ha
appena ricevuto alcuni discepoli di Giovanni il Battista che, imprigionato nella fortezza di
Macheronte dal re Erode Antipa, gli aveva chiesto tramite i suoi se era lui l'atteso oppure no. Gesù
prima risponde rimandando alle sue opere straordinarie, poi si rivolge alla gente lì attorno con
queste dure parole verso chi, attratto dalla fama del Battista, era andato a vederlo: «Che cosa siete
andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere?
Un uomo vestito con abiti di lusso? Quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re!
Allora, che cosa siete andati a vedere?».
Tre volte Gesù incalza gli uditori sull'identità delle immagini di cui si sono nutriti, come a dire: sì
avete visto, ma cosa "realmente" avete visto? Forse oggi rivolgerebbe questa domanda anche alle
folle di spettatori che domani guarderanno le fumate della Sistina. Ma immaginiamo che la rivolga
ai cardinali: «Voi che abitate nei palazzi del potere, che cosa state per andare a vedere entrando
nella Sistina?». Anche i cardinali sono uomini di questo tempo, anch'essi fanno parte della civiltà
dello spettacolo (anche papa Francesco ne faceva parte, altrimenti non sarebbe andato a Che tempo
che fa e al Festival di Sanremo). E cosa risponderebbero i cardinali? Cosa in particolare quel
cardinale che forse oggi stesso, più probabile tra qualche giorno, sarà il prossimo Papa?
Non lo so naturalmente, ma credo di sapere che la grande attenzione al Conclave e a quanto gli gira
intorno non è generata solo dalla sua spettacolarità. Che per molti sia solo spettacolo e curiosità
mondana non vi sono dubbi, ma per altri no, per altri è davvero una questione di fede, in particolare
di fede "cattolica", in questa Chiesa cioè che è sì peccatrice ma rimane pur sempre madre, "Mater
Ecclesia", anzi "Mater et magistra"; che è sì umana troppo umana, ma anche "Civitas Dei, Domus
Dei", addirittura "Misticum Corpus Christi": insomma un incredibile paradosso, espresso nel modo
più efficace dall'espressione patristica dei primi secoli "casta meretrix", prostituta, però anche casta,
ossimoro impossibile che meglio di ogni altra immagine sa rendere conto della pedofilia del clero e
al contempo della sua santità (quanti preti davvero santi ho conosciuto, quanti ancora ne conosco
con le loro mirabili e luminose esistenze-per-gli-altri!).
E poi, se dovessi scommettere, punterei anche sul fatto che anche per alcuni non-cattolici o non-piùcattolici, ma agnostici, atei o di altre religioni, la fumata bianca del giorno dell'elezione non sarà
solo spettacolo ma toccherà qualcosa di più profondo: un'emozione, un sentimento, un desiderio,
un'aspirazione. Per cosa? Credo per quell'orizzonte di senso ultimo che il filosofo Max Horkheimer,
uno dei fondatori della Scuola di Francoforte, denominò «nostalgia del totalmente altro» (fu nella
memorabile intervista al settimanale tedesco Der Spiegel del 1970 poi pubblicata come libro a sé,
con l'espressione "totalmente altro" che proviene dal capolavoro di Rudolf Otto, Il sacro, del 1917,
tradotto in italiano nel 1930 da Ernesto Buonaiuti, sacerdote romano, teologo e storico della Chiesa,
scomunicato da Pio XI nel 1925 perché modernista, uno dei pochissimi professori universitari in
Italia, 12 su 1225, a non prestare giuramento al regime fascista nel 1931 e quindi privato della
cattedra).
Concludo ricordando che Guy Debord, non potendo più reggere il senso di prigionia che gli
proveniva dalla società dello spettacolo, morì sparandosi un colpo di pistola al cuore. Aveva scritto:
«Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell'illusione religiosa». Il compito della Chiesa oggi, in
fondo, non consiste che in questo: mostrare con la vita e con le parole che la religione non è un'illusione. E che c'è un modo di stare sul palcoscenico del mondo che non è riducibile allo
spettacolo perché aspira al totalmente altro.
Vito Mancuso, La Stampa 7 maggio 2025