Solo l’amare e l’essere amati è eterno: incontro con Giancarlo Bruni
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incontro con Giancarlo Bruni
Bellissima giornata di primavera e bellissima la campagna che attraversiamo per andare a trovare padre Giancarlo Bruni, servita, monaco della Comunità di Bose, nel suo Eremo delle Stinche a Panzano, fra Firenze e Siena. Questo luogo nato su ispirazione di padre Giovanni Vannucci è un luogo speciale, luogo del silenzio, dell’accoglienza, della fraternità.
Padre Giancarlo con la sua barba candida come la neve ci accoglie con la sua consueta cordialità e amicizia, parlare lui ci trasmette serenità, leggerezza… ci può raccontare com’è nata la sua vocazione, cosa l’ha spinta ad arrivare in questo Eremo? … e cosa vuol dire oggi essere monaco?
Rispondo da anziano che a più riprese è ritornato sul tema della propria vocazione cercando di darle un nome e di dare un nome a chi ha contribuito a risvegliarla. La ‘coscienza’ suggerisce che vocazione è chiamata a divenire la propria ineffabile verità scritta in ogni essere umano: il prendersi cura di sé, dell’altro e del creato. ‘Gesù’, nella esperienza cristiana, ha intuito e accolto come paradigma della verità dell’uomo la coscienza portata a compimento: ogni nato da donna, nato sotto la legge è un figlio di Dio amato da sempre, un inviato ad amare come amato, un amato per sempre. Nel “Tu chi sei” la mia chiamata a divenirgli sempre più somigliante, mai abbastanza vicino al mio dover essere, cristiforme-deiforme, mai abbastanza lontano dal mio non dover essere, deforme. Un cammino reso consapevole da ‘incontri’ con monaci e monache che mi hanno reso attraente la loro forma di vita comune nella condivisione della preghiera, della biblioteca, della tavola, del lavoro, dell’ospitalità, della compassione per il dolore del povero mondo, delle decisioni comuni, della bellezza e della itineranza. Sostenuti da una idea di fondo, in modi diversi vivere la comune vocazione umana e cristiana, divenire monos, uno, unificato, uscire dal molteplice e entrare nel semplice, un modo di pensare, di sentire, di desiderare, di volere unici, quelli altamente umanizzanti del Cristo. Questo ricorda il monaco nella compagnia umana e ecclesiale. Come ricorda l’urgenza di spazi e tempi di eremo per intraprendere il pellegrinaggio delle profondità per discernere chi e che cosa lo abita, il pensare in termini di cura e di dedizione incondizionata o meno. Fontanella di Sotto il Monte, l’eremo delle Stinche, Bose, nulla di più che monachesimo come memoria dell’essenziale e del permanente, solo l’essere amati e l’amare è eterno.
Viviamo in tempo di crisi, anzi di tante crisi, un tempo in cui sembra non esserci alternativa alla logica della forza, del riamo, della violenza e della guerra, la pace sembra un’utopia. Perché, e in che misura, sul piano storico, l’annuncio di pace del Vangelo si è rivelato vano? Le Chiese possono diventare, in questa situazione, segni e strumenti di pace?
Sì, tempo di crisi, vale a dire di lupi, il diffondersi della prepotenza, di volpi, l’imporsi dell’astuzia, di indifferenti, la prassi del non prendersi cura. Sì, una guerra mondiale a pezzi, senza tuttavia dimenticare la costellazione di oasi di pace nel deserto della violenza, l’utopia fatta storia, la speranza nella disperazione. E il Vangelo della pace che ha conosciuto tradimenti e messe tra parentesi nelle stesse Chiese, cattolica, ortodossa e riformata. Nessuna può dichiararsi innocente. Relativamente al cattolicesimo la Pacem in terris di Giovanni XXIII, i testi conciliari, il magistero di papa Francesco e la franca testimonianza di molti hanno contribuito a un risveglio della coscienza, il divenire veicolo della buona notizia della pace facendo uso delle proprie armi. Ad esempio il pregare per la pace e il testimoniarla in uno stile pacificato e pacificante, proprio a chi ha distrutto in sè il muro della divisione che è l’inimicizia, proprio a chi legge l’altro, chiunque esso sia, come figlio e figlia a Dio e come fratello e sorella a te, alla tua comunità ecclesiale, alla Chiesa. Disarmati che non fanno paura a nessuno. E ancora con le armi della franchezza profetica che sa dire no alla corsa agli armamenti, no all’uso blasfemo del nome di Dio a giustificazione di ogni tipo di violenza e guerra all’altro, tolleranza zero a questo proposito, no a strutture religiose, culturali, politiche, finanziarie e economiche che generano ingiustizia, la guerra ai poveri sempre più poveri. E no a una cultura che ritiene inevitabile per giusta ragione il ricorso alle armi, se vuoi la pace prepara la pace educando ad essa, insegnando a lasciare l’ultima parola non alle armi ma al dialogo. Un cammino variegato a divenire servi del Dio della pace che reclama urgenza.
In questi giorni celebriamo i 50 anni della pubblicazione della “Bibbia di Gerusalemme”, un avvenimento importante per credenti e non credenti. Nonostante tutto è ancora un libro inaccessibile anche per i cristiani, il libro più venduto, ma quello meno letto. Che dobbiamo compiere per insegnare, per far conoscere la Bibbia?
La coscienza ecclesiale più avvertita è consapevole che la conoscenza del testo biblico è un atto di duplice resurrezione: da un lato la lettura dà vita al testo, lo toglie dall’oblio, a sua volta la Scrittura dà vita al lettore-ascoltatore, lo genera a libertà. Il libro, ‘liber’, rende l’uomo ‘liber’, libero, tale perché vero: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,31), vero perché introdotto in un rapporto amico con l’Altro, in un amore che non imprigiona ma sprigiona energie di bene. A partire dal Concilio, e anche grazie alla Bibbia di Gerusalemme, non sono mancate e non mancano iniziative tese a liberare dalla ignoranza delle Scritture, personalmente ritengo importante oggi inserire il cammino di conoscenza biblica all’interno della sinodalità e della località. Luoghi diversificati di Chiesa locale, parrocchie, comunità religiose, gruppi e famiglie che decidono di camminare insieme attorno allo stesso brano biblico, ad esempio il Vangelo del giorno, nutriti e fatti crescere evangelicamente uniti attorno alla stessa parola a edificazione della Chiesa locale e al territorio segno di quale tipo di umanità genera la parola. L’umano bello e buono che manda baci al cielo, che tende la mano all’altro senza impaurire nessuno, il custode delle colombe e delle viole, il sognatore vite eterne. Questo l’umano che la parola genera al mondo e che il mondo, a cominciare dalla geografia che abiti, attende. Un modo tra i molti di far conoscere un testo il cui sogno è il divenire ‘secondo il Vangelo’, o la Chiesa tende a divenire questo, luce, sale e lievito, il piccolo gregge che dà sapore al tutto, o diversamente è una istituzione che non serve né a Dio né agli uomini.
Lei è stato, giovane liceale, allievo di padre David Maria Turoldo. Ci può raccontare chi è stato per lei padre Davide e che insegnamento ne ha ricevuto?
Da padre David Turoldo ho appreso l’amore per la cultura russa, la poesia, la liturgia e la salmodia; la passione per la ricerca del volto vero di Dio, dell’uomo e della Chiesa, resi visibili e leggibili in Cristo, principio critico di ogni immagine e di ogni discorso relativi al divino, all’umano e all’ecclesiale; la resistenza nei confronti di ogni istituzione religiosa, culturale, politica e economico-finanziaria autoreferenziale, non al servizio dell’uomo a partire dagli ultimi, sempre presenti alla sua mente, al suo cuore e alla sua parola di fuoco. E ancora ho appreso da padre David l’apertura ecumenica, il sì nel riconoscimento, nell’accoglienza e nel dialogo all’altro di diversa confessione cristiana, di diversa religione, senza religione alcuna, accomunati dalla ricerca pensosa del senso dato al vivere. Non mi resta che il grazie per l’incontro con un tu in cui era vivissimo il senso dell’amicizia e della libertà, una relazione senza imprigionare, senza obbligare, attento a che ciascuno potesse divenire semplicemente se stesso.
“Non lasciare questa terra senza avere raccontato almeno a una rondine ciò che hai sognato di essere”. Questa è una sua poesia. Cosa vuol dire essere poeti oggi?
Essere poeti, ieri - oggi - domani, è dare voce a ciò che pulsa nel cuore e vuole diventare scrittura, racconto, frammento di speranza.
Grazie padre Giancarlo, ma lei ha paura della morte?
Di fronte alla morte non ho atteggiamenti da eroe, da ribelle, da impassibile, amo ripensare il morire di Gesù e di Stefano il protomartire. Gesù vive la morte in “preda all’angoscia” (Lc 22,44), ne chiede l’allontanamento, la vive affidato alla volontà del Padre (Lc 22,43) consegnandosi nelle mani del Padre (Lc 23,46). Gesù è paura affidata al Padre, Stefano affidato al Signore Gesù (At 7,59). Chiedo mi sia concesso di vivere la mia morte da pauroso consegnato al Vivente, a colui che era morto ma ora vive e ha potere sopra la morte (Ap 1,18).
Prima di salutarci un’ultima domanda. Il conclave ha eletto vescovo di Roma il card. Prevost, tu che impressione ne hai ricevuta? Perché Leone XIV?
L’impressione prima ricevuta dal nuovo vescovo di Roma, papa Leone XIV, apre al grazie a motivo del suo dirsi in verità, palese, come confermano quanti lo hanno frequentato, nel gesto stesso della apparizione alla loggia delle benedizioni. Un papa non clone di nessuno, non a caso il nome scelto non fa riferimento a quello degli ultimi papi, semplicemente se stesso. Un uomo che va a cavallo e che ama il tennis, sorrido condividendo, papa Francesco il calcio. Leone XIV lascia l’impressione di un tu mite e gentile, capace di commuoversi come te stimoniano le lacrime abbozzate durante la lettura del testo, un tu rigoroso. Ho visto in lui l’agostiniano fedele a un dire rigoroso che si affida non al parlare a braccio, all’improvvisazione, al parlare di sé ma alla rigorosità di un testo scritto che espone il suo programma, a cui rimanda. Dal sé al suo compito, servo di una parola non sua conservata e meditata che domanda di essere ascoltata, accolta, ringraziata e vissuta.
Cosa ti attendi dal nuovo papa?
Alla luce di tutto questo appare chiaro il che cosa mi attendo da lui. L’essere spronati come Chiesa a uscire dalla sterile polemica progressisti-conservatori per risalire insieme alla sorgente dell’essenzialità: il Cristo immagine visibile del Dio invisibile, ponte del farsi presenza di Dio amore al mondo, del suo pensare, del suo sentire, del suo agire riassunti nel nome Pace «Dio ci vuole bene, Dio ci ama tutti», incondizionatamente. Un amore terapeutico, tale da trasformare cuori violenti, l’interno, e strutture violente, l’esterno, in alleati amici di Dio, dell’altro e del creato, l’esserci in giustizia e bellezza, il sogno di Dio in Gesù. Di questo ha bisogno la Chiesa, di ritorno al decisivo, di questo ha bisogno l’uomo, del decisivo della Chiesa, questo ricordi e testimoni il successore di Pietro, la Chiesa unita nel suo sapersi umano amato in maniera folle e scandalosa da Dio in Cristo chiamato, questa la sua missione, a divenire il luogo del prolungamento di tale amore verso ogni creatura sotto il sole. In uno stile disarmato-disarmante, quello del Cristo. Nasce la Chiesa liberata dall’autoreferenzialità, definita dall’alterità: da un Altro, il Signore Gesù e Dio suo Padre materno, per gli altri, il mondo, senza escludere nessuno a partire dagli ultimi, secondo l’Altro, alla maniera di Cristo. Nasce la Chiesa sinodalmente in cammino verso il suo centro rimandata a raccontarlo come buona notizia alle periferie del mondo. Nasce la Chiesa chiamata a discernere se il suo modo di essere, le sue celebrazioni, le sue dottrine, le sue strutture e la sua tradizione sono conformi o meno al cuore del Vangelo, se creano muri o ponti, se danno vita o morte. Nasce una Chiesa che assieme al servo dell’unità impara a riconoscere che lo Spirito del Cristo soffia dove, quando e come vuole, gioendo del bene il cui porsi non conosce confini. Nasce una Chiesa non lamentosa della sua minoranza e irrilevanza ringraziando del suo essere una manciata di sale e un pugno di lievito nella minestra e nella pasta del mondo, felici di dargli sapore e crescita.
Perché il nome Leone?
Mi piace collegarlo a Leone Magno, testimone della forza della mitezza nei confronti dell’invasore, della mano disarmata in grado di disarmare la mano armata. Singolarmente a Leone X, il papa tranquillamente a cavallo nelle sue tenute mentre infuriava la riforma protestante, a memoria di una incoscienza e frivolezza da fuggire al punto di neppure pensarla. Nome da collegarsi infine a Leone XIII, il papa che accetta la modernità e che dà inizio alla dottrina sociale della Chiesa, la ‘Rerum novarum’. Sì a una Chiesa nel mondo e in dialogo con esso, non privandolo della sapienza evangelica nell’affrontarne i problemi, ad esempio migrazioni, digitalizzazione, intelligenza artificiale, questioni di genere. Infine esprimo un desiderio che mi accompagna dalla giovinezza, sciogliere il legame Stato pontificio-Santa sede; il Servo dei servi di Dio e dell’umanità si arricchisca della povertà di Cristo, non capo di stato, anche se di un chilometro.
Grazie.
Stefano Zecchi