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Lilia Sebastiani "Un pontificato ancora in cammino"

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Rocca 6 Maggio 2025


Teologia del quotidiano – L’inizio del suo pontificato, per me come per tanti altri, fu una rivelazione inattesa, un’esplosione di speranza – in primis, certo, per la scelta del nome Francesco, così non-tradizionale, non assunto finora da nessun papa, un nome che era veramente un programma –; una novità tanto più nuova in quanto declinata in forme di semplice e integrale umanità, con il rifiuto assoluto dello stile ieratico e l’assoluta centralità dell’annuncio, del predicare la Parola, in tutte le forme del suo ministero, così nei momenti più alti e impegnativi come in quelli più quotidiani e ‘in prosa’.

Ma anche la quotidianità in certi casi assume un insospettabile senso teologico: così la decisione di abitare a Casa Santa Marta e non nel Palazzo Apostolico (che cosa farà a questo riguardo il suo successore che non conosciamo ancora?) e di non volere i sotterranei di San Pietro come luogo di sepoltura; così l’abbigliamento con cui è sceso per l’ultima volta – in carrozzella, completamente inatteso – nella Basilica affollata di visitatori (con il poncho andino a righe, indossato forse come ultimo saluto alla sua patria, in cui non era mai tornato, ma forse anche solo perché comodo e caldo…, un mistero suggellato ormai dalla morte; e senza veste talare, senza zucchetto, invece con le sue pantofole da anziano riconoscibilissime come tali, con i pantaloni neri che portava sempre, anche se trasparivano tanto sotto la veste papale…). 

Il suo maggiore merito dinanzi alla Storia sarà riconosciuto, crediamo, nella ferma appassionata difesa della pace e della giustizia in cui ha impegnato la straordinaria capacità comunicativa di cui era dotato, e questo letteralmente fino al suo ultimo giorno: «Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo» (Messaggio Urbi et Orbi, Pasqua 2025). 

L’evangelizzazione davanti alla dottrina – Ha detto Massimo Cacciari che Papa Francesco è stato “l’unico che ha avvisato i naviganti che si sta andando contro la scogliera. E adesso il venir meno anche di questa voce rende tutto più difficile. Più difficile avere ascolto, più difficile organizzare qualcosa, più difficile tutto. A meno che il suo successore non riprenda con altrettanta decisione le indicazioni, la prospettiva, le idee di papa Bergoglio. Ma questo chi può dirlo?”. 

Il filosofo ed ex sindaco di Venezia riconosce come eredità di papa Francesco una ‘ragionevolezza’ rimasta inascoltata su questo tema, e su altri, quali l’immigrazione e la giustizia sociale. 

Personalmente trovo molto importante e significativo l’uso di questo termine: ragionevolezza. Per noi sarebbe spontaneo parlare anche (se non soprattutto) di amore e di fede, ma l’uso di una parola così ‘laica’ e apparentemente sottotono ha maggiore forza in quanto suscita risonanze nella coscienza dell’umanità tutta intera. 

Guardando a questa ragionevolezza profetica (… ma è un ossimoro?), si riesce a guardare con maggiore fiducia anche agli aspetti rimasti aperti. 

Uno dei meriti più luminosi di papa Francesco è senz’altro l’aver posto l’evangelizzazione davanti alla dottrina (e per questo i suoi oppositori lo accusavano di aver affossato quella stessa dottrina). Ma preservare il deposito della fede significa farlo vivere, e ciò che vive continua a evolversi e a crescere: la fedeltà è creativa e non è immobilismo. 

La fedeltà al Concilio – È stata uno degli assi portanti del suo pontificato. Non è facile richiamarla come un dato di fondo. Può significare troppe cose, anche opposte tra loro o quasi. Ricordiamo che papa Francesco, per motivi di età, è stato il primo papa che non aveva vissuto il Concilio. 

La sinodalità – Crediamo che sia un elemento centrale del suo sguardo sulla Chiesa. Anche prima di indire il Sinodo, Francesco tendeva a pensare e parlare in modo sinodale, anche se poi confessava con molto candore la sua tendenza all’accentramento. 

La riforma della curia – È stata al centro delle preoccupazioni di governo (e non solo) di papa Francesco, che ha trovato una situazione turbata da ripetuti scandali e dall’esistenza di “cordate” al servizio di carriere poco trasparenti. Il papa ha avviato un risanamento per mezzo del “consiglio dei Nove”, i suoi collaboratori scelti da diversi Paesi del mondo, i cui rapporti effettivi con gli uffici di curia non sono stati facili. 

Gli indirizzi accennati nella costituzione apostolica Praedicate evangelium del 2022 costituivano un’importante innovazione di principio: essi collocano il lavoro della Curia romana sul versante dell’evangelizzazione e non della gestione, sottolineando che il suo compito è rendere più agile la comunicazione tra papa e conferenze episcopali, senza costituire – come troppo spesso è avvenuto e ancora avviene – un filtro ingombrante o addirittura paralizzante. Senz’altro molto positivo il superamento della distinzione tra le Congregazioni (in primis quella per la Dottrina della fede, ex Sant’Uffizio) e i semplici Consigli, il cui ruolo, anche quando appariva teologicamente ed evangelicamente fondamentale, poteva risultare talvolta poco più che ‘decorativo’ nelle oggettive pesantezze della Curia. 

Oggi si parla solo – e giustamente – di Dicasteri; tuttavia non in tutti i casi lo stile operativo di questi organismi risulta effettivamente cambiato nel profondo. Diversi fattori hanno fin qui ostacolato le acquisizioni di principio. In particolare è stata più volte rilevata la mancanza di decreti applicativi che fossero all’altezza dei presupposti teologico-pastorali e permettessero ai cambiamenti di funzionare veramente; lo strumento curiale è apparso in molti casi destrutturato, bloccato dalla sua pesantezza e ridotto a un’impotenza di fatto. Troppo spesso le perizie (costose) necessarie al lavoro del Dicastero per gli affari economici hanno bloccato di fatto ogni decisione necessaria e urgente. Mentre sono teoricamente al servizio della giustizia e della trasparenza nei procedimenti, talvolta possono trasformarsi in strumenti di ingiustizia. 

Il problema degli abusi – È cruciale per quanto riguarda la credibilità della Chiesa cattolica, almeno nel mondo occidentale. In questo quadro, bisogna riconoscere che la Chiesa italiana, avendo sempre rifiutato una vera indagine sul problema e limitandosi a generiche esortazioni, è responsabile di molti immobilismi e di molte ambiguità, e per fare chiarezza occorre sempre procedere in modo trasparente e soprattutto sistemico: ormai infatti è ampiamente riconosciuto, anche da voci interne alla Chiesa, che i ‘colpevoli’ caso per caso non sono gli unici colpevoli, che le responsabilità sono da ascrivere soprattutto a un sistema preoccupato più di arginare gli scandali che di aiutare le vittime. Un certo percorso, diciamo ‘preparatorio’, è stato effettivamente compiuto, in particolare con il motu proprio di papa Francesco Vos estis lux mundi e con il passaggio da una concezione degli abusi che ne considerava quasi solo la dimensione di peccato a quella che ora li riconosce come crimine. Ma si continua a muoversi in un ambito quasi esclusivamente teorico, e perciò in modo inconcludente. 

Si tratta di un problema specifico della Chiesa italiana? Forse sì e forse no, ma tanto più urgente pensando al legame specialissimo che la Chiesa ha sempre avuto con l’Italia, di cui geograficamente fa parte. 

Gli Stati occidentali moderni non sono più disposti a riconoscere alla Chiesa un’autonomia totale in queste materie, ed è giusto; gli uomini di Chiesa sono anche cittadini. Ancora in molti casi non viene rispettato l’obbligo di denuncia ai poteri civili dei casi emergenti; le soluzioni ‘in foro interno’ vengono facilmente sospettate di avere come fine principale quello di preservare l’istituzione dalle conseguenze inevitabili, e lo stesso papa Francesco talvolta è apparso contraddittorio nel suo agire, passando da atteggiamenti di intransigente severità in certi casi ad altri che sono apparsi indebitamente comprensivi, come è avvenuto di recente nel caso Rupnik. 

L’abuso da parte degli uomini di Chiesa è stato presentato a lungo come problema ascrivibile ad alcune “mele marce”, ma il dilagare quasi epidemico di tali marcescenze rende esplosiva la situazione e mostra quanto siano necessari decisi cambiamenti nel sistema ecclesiale, su più fronti, anche apparentemente lontani dal problema degli abusi: funzionamento delle parrocchie e responsabilità dei parroci (in una situazione ormai abissalmente cambiata rispetto a quella in cui vennero istituite), formazione dei chierici, rapporti con i fedeli, problema irrisolto del celibato obbligatorio, androcentrismo sacralizzato… 

Se non si arriva a una gestione adeguata e trasparente della questione degli abusi, è inevitabile che essi vengano sfruttati anche strumentalmente a fini di lotta politica interna, al servizio del potere; e d’altra parte la Chiesa si preclude un’opportunità preziosa di proclamare con vera parrhesìa le ragioni della giustizia (sempre inseparabili da quelle della carità), davanti alle emergenze dell’Occidente. 

La condizione femminile nella Chiesa – E qui parliamo quasi solo del mondo occidentale perché le diverse regioni presentano tuttora differenze irriducibili. La questione è decisiva guardando al futuro, benché forse non così decisiva come poteva sembrare negli anni Settanta-Ottanta. Le donne, anche cresciute nella tradizione cristiana, sembrano non aspettarsi più quasi niente dalla Chiesa e non considerare questo come un problema doloroso, anzi nemmeno come un problema serio. La conclusione dell’ultimo Sinodo, così prolungato, così attentamente preparato, così povero di risultati, sembra confermarlo: nonostante le speranze suscitate all’inizio, non ha innovato sostanzialmente nulla per quanto riguarda la situazione delle donne nella Chiesa. Nonostante l’affetto sincero e la stima che papa Francesco ha sempre mostrato per le donne, nonostante alcuni cambiamenti positivi e opportuni, che in rarissimi casi lo hanno indotto a comunicare alle donne il potere di giurisdizione, o ad aumentare il loro numero in certi contesti (sempre a esclusione della sfera del ‘sacro’, su cui veramente è da credere che si giocherà il futuro della Chiesa), tutto resta ancora indeterminato. Un merito indiscutibile di papa Francesco per quanto riguarda le donne nella Chiesa è l’aver assegnato a Maria Maddalena una festa liturgica propria. L’innovazione è stata stabilita il 3 giugno 2016, quando era in corso il Giubileo della Misericordia. Nel decreto è detto che “la decisione si iscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina”. 

Già alcuni primi passi significativi in questo senso erano stati compiuti da s. Giovanni Paolo II: nell’enciclica Mulieris dignitatem (1988) viene sottolineata appunto la peculiare dignità di Maria di Magdala, discepola prediletta di Gesù, testimone e prima annunciatrice della Risurrezione. 

Per un tempo non breve, tuttavia, il cambiamento non si era visibilmente esteso alla concretezza del vissuto pastorale, né alla teologia nel suo insieme né alla liturgia. Fino ai tempi del Concilio, nel calendario liturgico della Chiesa la Maddalena era indicata come ‘penitente’; poi, quando non appariva più possibile ignorare i cambiamenti decisivi segnati dagli studi biblici, è stata designata dall’appellativo generico di ‘santa’ senza specificazioni. 

È stato papa Francesco, nel 2016, a far entrare la sua festa (che si celebra il 22 luglio) nel Messale e nel Breviario, e a darle il titolo ‘ufficiale’ di discepola del Signore: anche se molte donne sono state discepole del Signore, nel passato e nel presente, mentre il ruolo di Maria di Magdala è unico. 

Ma su questo, e sulla ministerialità femminile in genere, torneremo ancora in modo più attento, quando il nuovo pontificato avrà avuto inizio.













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