Paolo Crepet «I genitori di oggi sono pessimi, vogliono essere più giovani dei figli»
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La sua riflessione parte dalla domanda «Dove sono finite le emozioni? »: perché c’è l’urgenza di riscoprire questo lato della persona? «Perché le emozioni non ci sono più. Sono state svendute alla tecnologia. Parto da una domanda semplice: Come ci state in questo mondo? Siete felici? Io no. Io non ci sto bene, mi fa anche un po’ schifo per la totale mancanza di gentilezza, l’assenza di pensiero, il dare per scontata ogni nefandezza».
Di nefandezze sono piene le pagine di cronaca, però. .. «A queste cose ci si deve ribellare. Invece tutti corrono a guardare una serie come Adolescence, nella quale si dà per scontato che una tredicenne possa essere ricattata e morire per questioni sessuali. Già l’idea è un orrore. È ora di dire basta: in Australia hanno vietato i social fino a 16 anni. Perché non lo facciamo anche noi? ».
Oltre 20 anni fa, nel libro «Non siamo capaci di ascoltarli», lei parlava di crisi dei modelli educativi. I ragazzi di allora, che genitori sono diventati? «Pessimi, i peggiori della storia. Vogliono essere più giovani dei figli e un’assurda competizione retrograda li porta a vestirsi come loro, se non peggio; a stare sui social come fanno gli adolescenti. Quale autorevolezza possono avere un padre e di una madre che dialogano con i robot per avere qualsiasi informazione? ».
Il trovarsi una confort zone ha anestetizzato i giovani? «Ha anestetizzato tutti. Abbiamo accettato comodità che hanno sedotto il mondo e creato un neocolonialismo del quale non siamo neanche consapevoli. I giovani restano sul divano pretendendo che la pizza arrivi a casa portata, a costo zero, da chi deve percorrere chilometri in bici. La rivoluzione deve partire da noi: nonni, genitori, ragazzi. È l’unico modo per dire che si può cambiare. L’identità che ci vogliamo costruire è nel futuro ma per farlo dobbiamo smettere di rincorrere la comodità».
Ha seguito la polemica sulla circolare del ministro Valditara che abolisce asterischi e schwa dalle comunicazioni scolastiche? «Adottare una lingua incomprensibile non porta a nulla. Il dibattito che parte dall’identità di genere non mi appassiona. Io sono un sostenitore dell’idea no gender, perché siamo sempre un po’ di qua e un po’ di là. Per dirla banalmente: non mi interessa la polemica sulle targhette in bagno; chi arriva entra e chiude la porta. Pensiamo alle foto di Toscani, ai grandi messaggi che hanno trasmesso e lasciamo stare le piccole, inutili guerre che ci siamo inventati per odiarci».
Le ombre dell’umanità contemporanea sono davanti agli occhi di tutti. E le luci? «La luce è un teatro pieno, perché vuol dire che la preoccupazione è condivisa. Se c’è smarrimento c’è pure la ricerca di una via per affrontarlo».
Le persone riempiono i teatri per sentirsi dire da lei cose che non vorrebbero ascoltare: una contraddizione, un modo per mettersi a posto la coscienza, un tentativo di riscossa? «La scomodità è una merce rara, bisogna cercarla. Io ho cambiato la mia vita, il mio modo di scrivere. Non sono un influencer; parlo delle esperienze e dei maestri che ho incontrato. Il numero di persone che segue le mie conversazioni dimostra che c’è bisogno anche di questo».