Severino Dianich “Chi è e a cosa serve il papa?”
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In questo tempo, di più o meno trenta giorni, nei quali un papa non c’è, e sul papa si sprecano parole senza fine, può essere opportuno riproporre le domande di fondo: chi è il papa? A che serve il papa?
Superare una mentalità e uno stile
Le Chiese dei protestanti, degli ortodossi e degli anglicani, né hanno un papa, né vorrebbero mai averlo. Giovanni Paolo II, invece, riaffermava «la convinzione della Chiesa cattolica di aver conservato, in fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei Padri, nel ministero del vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell’unità»; riconosceva, nel contempo, che proprio questo convincimento dei cattolici, paradossalmente, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani» (Ut unum sint, 88).
A dire il vero, in questi ultimi decenni, da parte di ortodossi e anglicani si è risvegliato un certo interesse alla funzione che, in un modo o nell’altro, un prótos fra vescovi e patriarchi, potrebbe utilmente esercitare al servizio di tutte le Chiese, come punto di riferimento dell’unità dell’intero corpo cristiano.
Nella fede della Chiesa cattolica, condivisa dagli ortodossi e, in qualche maniera, anche dagli anglicani, i diaconi, i preti e i vescovi esercitano un loro particolare ministero in forza e con la grazia del sacramento dell’Ordine.
Secondo un’antichissima tradizione, questo sacramento viene celebrato in tre gradi diversi, quello del diacono, quello del prete e quello del vescovo. Tre gradi anche per i cattolici, non quattro: il papato non è un grado del sacramento dell’Ordine, né il papa è papa in forza di un nuovo sacramento dopo quello dell’episcopato. Il papa è un vescovo come tutti gli altri.
Questa è la prima cosa da chiarire per formarsi un’idea corretta del papato, liberandolo dalle superfetazioni che, soprattutto nei due ultimi secoli, ne hanno amplificato fuori misura la figura e il ruolo.
Non sono mancate forme di culto del papa assai pittoresche, come l’ondeggiare sul suo capo dei flabelli, di faraonica memoria, o il suo incedere al di sopra della folla, portato alto sulla sedia gestatoria.
Per chi scriveva al papa, era di rito concludere la lettera con l’espressione di deferenza: «Prostrato al bacio del sacro piede, mi professo di Sua Santità umilissimo servitore n.n.».
La svolta con Giovanni XXIII
Da papa Giovanni XXIII in poi, molti rituali sono stati smantellati e tutti i protocolli sono stati semplificati. Ciò nonostante, ancora, non per colpa dei teologi, né dei liturgisti, né dei canonisti (se per colpa dei curiali, non saprei dire), ma della televisione e dei social, il ruolo del papa, nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica, è sovradimensionato rispetto al suo ministero, così come è considerato nella fede della Chiesa cattolica.
Il fatto è che il vescovo di Roma, e nessun altro vescovo al mondo (anche se lo volesse e avesse i carismi per farlo in maniera degna), è in grado, di fatto, oggi, di far sentire a tutto il mondo la voce della Chiesa.
Il papato di oggi è il frutto di una storia più che millenaria. Tanto per portare un esempio concreto, la Santa Sede (non lo Stato della Città del Vaticano), solo in forza della tradizione di una sua funzione storica, religiosa e diplomatica plurisecolare, gode di personalità giuridica internazionale, tanto da partecipare alle attività dell’ONU in qualità di osservatore permanente, da poter stipulare accordi con gli Stati e aderire alle convenzioni internazionali.
È, questo, l’attuale punto di arrivo della lunga storia di un’istituzione, che è venuta formandosi lentamente, fin dai primi secoli del cristianesimo, facendo del vescovo di Roma l’autorità suprema della Chiesa universale.
Perché Roma?
Perché quello di Roma e non quello di Londra? Perché non quello di Gerusalemme o di Antachia, l’Antiochia degli apostoli, in Turchia, o di Alessandria in Egitto?
Nonostante il gran discutere sull’argomento, nelle infinite polemiche fra cattolici, protestanti e ortodossi, la ragione del fatto è, alla fin fine, molto semplice: perché l’apostolo Pietro ha fondato la Chiesa di Roma, a Roma è stato martirizzato, a Roma, ai piedi del colle Vaticano è stato sepolto, a Roma, sotto l’altare e il baldacchino del Bernini, c’è il sito della sua tomba.
A Roma, inoltre, è stato martirizzato anche l’apostolo Paolo e, fuori le mura, andando verso Ostia, si può venerare la sua tomba. Se si vuole aggiungere memoria a memoria, esiste anche una tradizione, secondo la quale a Roma avrebbe subìto la persecuzione e la tortura dell’olio bollente anche l’apostolo Giovanni.
In verità, baricentro del cristianesimo nei primi secoli, più che Roma, è stata Bisanzio, la Costantinopoli creata dal primo imperatore cristiano, la nuova Roma.
Il ruolo degli imperatori bizantini nella vita della Chiesa è stato imponente e il quadro istituzionale dei primi secoli è stato policentrico, nel quadro della pentarchia, cioè dei cinque patriarcati, tutti in Oriente, escluso quello di Roma.
I grandi concili dell’antichità si svolgeranno tutti in Oriente, così come erano orientali i responsabili delle eresie per contrastare le quali essi si riunivano.
Nonostante l’imponente carico delle memorie sante depositatesi in Roma, e il suo prestigio di culla e di capitale dell’impero, il ruolo del suo vescovo nei confronti delle altre Chiese è andato emergendo solo lentamente.
Episodio di grande rilevanza fu, nel V secolo, quel che accadde al concilio di Calcedonia, dove i Padri pervennero al consenso sulla professione della fede nella persona di Gesù veramente uomo e veramente Dio, solo accogliendo e facendo loro proprio il dettato della «lettera del beatissimo e santissimo arcivescovo della massima e più antica città di Roma, Leone, scritta all’arcivescovo Flaviano di santa memoria, per confutare il cattivo intendimento di Eutiche, in quanto concorde con la confessione di fede del grande Pietro e colonna comune, a difesa dalle idee perverse e a conferma delle giuste affermazioni della fede».
Unità nella fede e nella comunione.
Nonostante la progressiva emergenza del ruolo del vescovo di Roma, come punto di riferimento per l’ortodossia della fede e dell’unità della Chiesa, per tutto il primo millennio le questioni emergenti venivano affrontate dai sinodi e dai concili particolari nei quali i vescovi delle diverse regioni prendevano le decisioni necessarie per le loro Chiese, la cui autorità, in tanti casi, veniva riconosciuta anche fuori della loro regione, al livello della Chiesa universale.
È dopo la separazione del grande corpo delle Chiese orientali e il loro rifiuto dell’autorità papale, che il papato si affermerà in Occidente in tutta la sua imponenza. Alimenterà questo sviluppo anche il ricostituito impero, creatura papale, «sacro e romano», ma pur sempre generatore di una plurisecolare vivace dialettica fra papa e imperatore.
Passato attraverso le sue periodiche crisi interne di papi e antipapi e il tentativo di rendere il papa inferiore al concilio e dipendente dalle sue decisioni, dopo il concilio di Trento, l’istituzione papale si affermerà in maniera sempre più vasta, teologicamente a fondo pensata e dogmaticamente imperativa.
Sarà, poi, soprattutto dopo la rivoluzione francese e a difesa dalle politiche giurisdizionaliste dei governi della restaurazione, tendenti a ridurre gli episcopati a strutture della stessa società civile, che il papato si ergerà come l’unico potere capace di affrontare il pericolo della riduzione della Chiesa cattolica ad un insieme di Chiese nazionali. Non per nulla, è ciò che è acceduto nelle Chiese protestanti, del resto in linea con una loro tradizione, e nelle Chiese ortodosse sotto l’ondata delle guerre di indipendenza delle singole nazioni e la creazione di nuovi corrispondenti patriarcati.
Lo sviluppo storico del papato è avvenuto sotto la spinta di una vasta gamma di fattori sociali e politici, e il papato ne porta i segni ancora oggi sul suo corpo.
La sua anima, però, vive della convinzione di fede in Gesù che, avendo mandato gli apostoli a costituire e a governare la Chiesa, «ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (LG 18).
È così che i vescovi delle diverse Chiese sparse per il mondo trasmettono di generazione in generazione, attraverso il sacramento dell’Ordine, il ministero degli apostoli a servizio delle Chiese particolari, mentre, nella legittima designazione di uno di loro a presiedere alla Chiesa di Roma, si prolunga nel tempo il ministero dell’apostolo Pietro, cui il Signore aveva dato il compito di essere la roccia di salvaguardia dell’unità della Chiesa e il compito di confermare nella fede i suoi fratelli (Mt 16,13-20; Lc 22,31-32).
Collegialità e sinodalità
Il ministero del successore di Pietro, in forza del sacramento, è lo stesso ministero pastorale degli altri vescovi al servizio della Chiesa di Roma, mentre, in forza della sua legittima destinazione alla Chiesa che fu di Pietro, è al servizio di tutte le Chiese, come centro della loro universale comunione nell’unità della stessa fede.
In questo quadro appare con chiarezza che l’autorità del papa non scende dall’alto sugli altri vescovi e sulle Chiese particolari sparse nel mondo, ma emerge dall’interno del corpo episcopale.
Dal punto di vista dottrinale, è stato soprattutto il Concilio Vaticano II a tirar fuori il papato dalla sua solitudine, nella quale il papa troneggiava al di sopra dei vescovi che sembravano governare le Chiese particolari a nome suo, più che del Signore, e a proporre una visione del papato nel quadro della collegialità episcopale.
Dal punto di vista pastorale e canonico è stato papa Francesco ad avviare un processo, che è tutt’altro che concluso, di sviluppo della sinodalità, cioè della partecipazione di tutti i fedeli alle decisioni da prendere nella Chiesa, a tutti i diversi livelli della sua articolazione, dal livello più basso, con la promozione nelle parrocchie di organi collegiali rappresentativi della comunità, con i quali il pastore condivida la responsabilità delle decisioni da prendere; al livello più alto, nell’intento di una maggiore valorizzazione delle conferenze episcopali e nella previsione che il papa possa esercitare il suo ministero specifico sempre meno da solo e sempre più nella condivisione con vescovi e fedeli del suo discernimento sui bisogni della Chiesa e delle decisioni che si intraprendono in conseguenza.
Non è un caso che, nelle congregazioni dei cardinali in preparazione del conclave, fra le molte proposte che ne emergevano, non è mancata quella dell’opportunità di creare un consiglio permanente di vescovi con il quale abitualmente il papa possa consultarsi.
Nel cammino sinodale, voluto da papa Francesco e nel Sinodo dei vescovi 2021-2024, è emersa vistosa e imponente l’esigenza della partecipazione dei fedeli alle responsabilità e alle decisioni dei pastori.
In vista degli sviluppi futuri della missione della Chiesa, papa Francesco le ha lasciato in eredità il Documento finale del sinodo, ricco di molteplici e feconde suggestioni, che – si spera – non restino disattese.