Luca Mazzinghi "Terra promessa e conquista di Gaza"
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Don LUCA MAZZINGHI
10 maggio 2025
«Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore, tuo Dio, le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà».
Con queste durissime parole si apre il capitolo 7 del Deuteronomio, uno dei molti testi relativi alla terra di Canaan, promessa da Dio al popolo di Israele. Testi del genere abbondano nella Bibbia ebraica. Si veda Is 60,12 che sta all’interno di un passo che molte Chiese cristiane leggono per la festa dell’Epifania: «Perché la nazione e il regno che non vorranno servirti periranno, e le nazioni saranno tutte sterminate».
È noto come oggi molti ebrei, in Israele, si servono di questi testi biblici per giustificare teologicamente un fatto politico: tutta la terra di Israele è ebraica e il diritto ad abitarvi è stato sancito da Dio stesso. Questo accade in particolare con i cosiddetti “coloni”, che ormai da molti anni stanno moltiplicando gli insediamenti ebraici all’interno dei territori palestinesi, con l’appoggio sempre più esplicito del governo israeliano.
Il termine “Palestina” con cui si indica quella parte di terra abitata appunto dai palestinesi – grosso modo le zone occupate da Israele dopo il 1967 – è ormai spesso sostituito dai termini biblici “Giudea” e “Samaria”.
Ma non si tratta solo dei coloni; un gruppo di ebrei di diversa estrazione, alcuni dei quali impegnati anche nel dialogo ebraico-cristiano, aveva già pubblicato nel 2000 un documento nel quale si intendevano promuovere relazioni più positive con i cristiani, dal titolo Dabru emet («Direte la verità»). Al terzo punto si legge: «L’evento più importante per gli ebrei dal tempo dell’Olocausto è stato la restaurazione di uno Stato ebraico nella Terra promessa. Come membri di una religione fondata sulla Bibbia, i cristiani riconoscono che Israele fu promesso – e dato – agli ebrei come luogo fisico del patto tra loro e Dio. Molti cristiani approvano lo Stato di Israele per ragioni ben più profonde di quelle politiche»[1].
Non si devono poi dimenticare gesti come quelli di Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, che il 22 maggio 2019, tenendo in mano una Bibbia, affermò in quella sede che proprio con la Bibbia inizia l’intera storia di Israele e il suo legame con la sua terra («we have biblical rights to the land… the Bible is our deed»).[2]
Rifiutare la Bibbia ebraica?
Queste posizioni portano per contrasto non pochi cristiani a mettere in discussione l’intera Bibbia ebraica con forme di latente e rinnovato marcionismo – Marcione era un teologo cristiano del II sec. che contrapponeva al Dio degli ebrei il Dio di Gesù del Nuovo Testamento. Che bisogno abbiamo ancora di leggere questi testi, pensano ancora oggi molti cristiani? Peggio ancora, che bisogno abbiamo di pregare con essi!
Vi sono biblisti cristiani palestinesi, come Mitri Raheb, che mettono il dito sulla piaga; nel suo libro pubblicato in italiano nel 2023, Decolonizzare la Palestina. La terra, il popolo, la Bibbia, Raheb vede ad esempio il libro di Giosuè come il prototipo di quello che egli definisce colonialismo ebraico: conquista, distruzione, espulsione dei popoli conquistati. Il tutto avverrebbe appunto attraverso una lettura “coloniale” di Giosuè, in nome di uno stabilito diritto divino. Così da parte cristiano-palestinese ci si sforza di decostruire il valore storico e fondante di questi testi biblici, con il rischio, però, di staccarsi alla fine da quello che i cristiani chiamano Antico Testamento.
Molti cristiani, poi, si rifugiano in interpretazioni di carattere simbolico: i racconti della conquista non sarebbero altro che l’epopea della liberazione di un popolo oppresso e salvato da Dio, un tipo di lettura non infrequente nella teologia della liberazione. Oppure, come già faceva Origene, questi racconti vengono letti come pure e semplici allegorie della vittoria di Cristo sul male.
Ma il nodo rimane da sciogliere e il non tentare di farlo porta con sé rischi enormi per la fede stessa nella Bibbia come parola di Dio.
Una risposta dalla Scrittura
Una prima considerazione può essere fatta a livello storico: se analizziamo i testi biblici sulla conquista della terra da questo punto di vista, ci accorgiamo di come i racconti contenuti nel libro di Giosuè e, in modo diverso, in quello dei Giudici, narrano eventi che difficilmente sono accaduti nel modo in cui vengono descritti nei testi biblici.
Gli storici dubitano infatti che intorno al XII sec. a.C. vi sia stata una “conquista” della terra di Canaan nei termini violenti in cui la Bibbia la racconta. Ma quegli ebrei che intendono fondare il loro diritto esclusivo alla terra sull’autorità divina non sarebbero molto sensibili, io credo, a questo genere di considerazioni.
Dobbiamo però ricordare che in quegli stessi testi biblici nei quali si parla del rapporto tra Israele e la terra è presente anche la convinzione che proprio su quella terra che il Signore dona, tutti sono in realtà “forestieri e ospiti” perché “la terra è mia” (Lev 25,23, il capitolo relativo al “giubileo”).
Dovremmo poi ricordare che sin dalle promesse fatte ad Abramo in Gen 12,1-3, una di queste è la benedizione che dallo stesso Abramo si estende a “tutte le famiglie della terra”. C’è, dunque, nelle Scritture un legame tra Israele e la terra che non può essere ignorato, ma che, allo stesso tempo, non deve essere assolutizzato e considerato come un privilegio esclusivo.
La parola di Dio non si fa strumentalizzare
Riprendo qui alcune considerazioni di Francesco Rossi de Gasperis (1926-2024), un gesuita che ha vissuto a lungo a Gerusalemme e che, sull’argomento, ci ha lasciato molte sagge riflessioni. La parola di Dio – almeno per coloro che la considerano tale – resiste ai tentativi di chi, anche per fini positivi come accade a molti lettori cristiani colpiti dalla sofferenza del popolo palestinese, vorrebbe manipolarla per liberarla da quella dimensione storica e incarnata che ne fa, prima di tutto, un testo nato in ogni caso nel popolo di Israele e ad esso, prima di tutto, diretto.
Una tentazione che spesso porta i cristiani di Occidente a coltivare, talora senza neppure rendersene conto, un rinnovato antisemitismo, proiettando sull’intero popolo ebraico le responsabilità di una parte, seppur consistente, degli ebrei che vivono nell’attuale stato di Israele.
D’altra parte, la Bibbia resiste anche al tentativo di chi vorrebbe interpretarla in modo fondamentalista, come fanno appunto quegli ebrei israeliani che ritengono di fondare un’opera di colonizzazione – e di fatto di oppressione e di espulsione – di popolazioni che vivono in quella terra da due millenni; tra queste, anche popolazioni cristiane che, a causa della situazione attuale, stanno sempre più abbandonando il paese. Anche diversi gruppi cristiani, specie negli Stati Uniti, non sono esenti da questo tipo di letture.
Non spetta, però, al contesto socio-politico attuale il compito di dettare ai credenti ciò che si deve o che non si deve prendere dalle Scritture, ma al contrario il compito dei credenti è quello di chiedersi come proprio il contesto nel quale viviamo possa e debba essere riletto alla luce delle Scritture, viste nella loro totalità.
In quest’ottica, se, da un lato, non si può negare il legame essenziale tra il popolo ebraico e la terra, questo legame non può diventare la giustificazione teologica di una politica di violenza e di oppressione. Il rischio pericolosamente concreto è quello di un suicidio morale e spirituale dello stato di Israele, che avrebbe conseguenze disastrose per l’intero mondo ebraico (cf. l’ultimo, provocatorio libro, di Anna Foa, Il suicidio di Israele).
Israele e i cristiani di fronte alla Bibbia
Quando Israele rivendica il possesso esclusivo della terra fa appello sia all’autorità della Bibbia sia alla sofferenza ebraica nella storia; ma tali rivendicazioni debbono essere viste anche alla luce dell’esilio del popolo palestinese e delle sue esperienze di discriminazione e occupazione nelle terre oggi governate da Israele; così David Neuhaus, il gesuita che, dal 2009 al 2017, è stato vicario per la comunità cattolica di lingua ebraica del Patriarcato di Gerusalemme.
Il patriarca Michel Sabbah, già vescovo della diocesi latina in Terra Santa si chiedeva nella sua lettera pastorale dell’ormai lontano 1993: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra stessa storia della salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico e condannare noi? È proprio questa la volontà di Dio alla quale dovremmo piegarci inesorabilmente, senza appello e senza discussione, e che ci chiederebbe di lasciare tutto a favore di un altro popolo?».[3]
La Chiesa cattolica deve vedere nel dialogo con il popolo ebraico, scrive Neuhaus, «una questione essenziale per la propria identità. Ebrei e cattolici condividono gran parte della Sacra Scrittura. Gesù è totalmente incomprensibile senza il suo radicamento nel mondo ebraico e la Chiesa oggi cerca di onorare quel mondo ebraico.
In effetti, essa è ben consapevole che molti ebrei legano la propria identità ebraica allo Stato di Israele, perché in esso vedono una garanzia per il loro benessere in un mondo che è stato spesso orribilmente crudele nei loro confronti. Alcuni di loro scorgono nello Stato una necessità connaturata al loro essere ebrei». Ma di nuovo la Chiesa sa che in «questa terra che gli ebrei chiamano “Terra d’Israele”, venerata anche da cristiani e musulmani, c’è un popolo privato dei propri diritti, quello palestinese».[4]
Ritorna con forza, a questo punto, per molti cristiani, la tentazione di eliminare la Bibbia ebraica o di appiattirla sul Nuovo Testamento, credendo di risolvere il problema, ma, in realtà, soltanto accantonandolo e ritornando così a quel tipo di lettura anti-ebraica che, per troppi secoli, ha caratterizzato l’approccio del cristianesimo alle Scritture. In realtà, il fatto che la Bibbia – tutta la Bibbia, compreso il Nuovo Testamento – usi spesso un linguaggio violento, come nel caso della conquista della terra e della distruzione dei popoli che vi abitano, è un segno che la Bibbia prende sul serio la questione perenne della violenza, della guerra, dell’odio.
Non la nasconde dietro forme di pietismo o di misticismo o di un vago spiritualismo; la pone in bocca a Dio stesso. Dio parla nella Bibbia con il linguaggio degli esseri umani e si fa carico delle nostre debolezze e limitazioni (cf. Dei Verbum 13); per questa ragione la Bibbia va continuamente interpretata – lo sapevano gli antichi rabbini e lo sapevano i Padri della Chiesa – e mai, in particolare, può essere piegata a interessi mondani dettati dai nostri egoismi, personali o collettivi.
Religiosità oppure fede?
Quei musulmani che si fanno uccidere per provocare con la loro morte la morte di altre persone, sono detti shaid, in arabo il “testimone”, ovvero il “martire”; essi sono un esempio, nel campo dell’Islam, di come un approccio “religioso” ai testi sacri non basta, se non è accompagnato da una visione di fede che coinvolga un rapporto profondo e personale con Dio e che si apra a relazioni positive con l’intera umanità. Allo stesso modo, chi usa la Bibbia per giustificare atti di violenza, come anche i cristiani hanno fatto nel corso dei secoli, è certamente una persona “religiosa”, ma non una persona di fede.
Nella Bibbia, poi, resta una tensione non risolta, ma feconda, tra l’ordine della creazione e quello della salvezza: la fede in un unico Dio creatore fa sì che tutti gli esseri umani si sentano fratelli e sorelle, parte di un medesimo mondo creato. Nessuno è “proprietario” di una qualsiasi “terra”. La fede in un Dio che salva, nella Bibbia, passa poi dall’esistenza di un popolo preciso: il popolo di Israele, l’alleanza da Dio fatta con lui e il legame inscindibile che Israele ha con la terra promessa. A questo popolo appartiene Gesù di Nazareth e noi, i cristiani, apparteniamo a Cristo.
Sono solo riflessioni di uno che, come me, prova a credere nella Bibbia come parola di Dio in parola umana e si sforza di annunziarla e di insegnarla da una vita. Di una cosa sono sicuro: nella questione dell’interpretazione di questi testi relativi alla “conquista” della terra, legati all’attuale situazione che si è creata tra Israele e Palestina, si intreccia il futuro stesso della Bibbia, come libro “credibile” e come parola di vita data da Dio all’umanità.
[1] National Jewish Scholars Project, Dabru Emet, 2000, in www.nostreradici.it/dabru_emet.htm
[2] Bible is Jewish deed to Land of Israel, settlement envoy tells UNSC (The Jerusalem Post, 30 aprile 2019)
[3] M. Sabbah, Lettera pastorale Leggere e vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia (1993), n. 7.
[4] Cf. Civiltà Cattolica, quaderno 4174 (2024) 313-326.
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