Il dolore dell’altro e la lezione di Primo Levi. La crudeltà inizia con la nostra indifferenza
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
Lo scrittore americano JONATHAN SAFRAN FOER: «Chi ci ha raccontato Auschwitz ci insegna che il silenzio e l’ombra sono complicità. L’ebraismo deve vivere nel mondo, ci chiederanno se siamo intervenuti di fronte al mondo che grida».
Pubblichiamo il discorso che lo scrittore americano, autore di «Ogni cosa è illuminata» ha tenuto a Genova, alla cerimonia del premio Primo Levi, che gli è stato conferito.
Sono turbato dalla responsabilità che deriva dall'invocare il nome di Primo Levi. È giusto che sia
così. Levi non ha scritto per confortarci, intrattenerci o redimerci. Ha scritto per turbarci. Credeva,
come diceva lui stesso, che «è successo, quindi può succedere di nuovo», ciò che può succedere non
è il cataclisma dell'Olocausto, ma l'indifferenza che ha permesso che accadesse. C'è una domanda
alla base di tutta la sua opera: restare svegli. Non solo vigili nei confronti della storia, ma
vulnerabili al presente. Levi non mirava a scioccare, ma a turbare. Il suo turbamento non era
estetico o psicologico, era morale. Aveva lo scopo di mantenerci in una sorta di inquietudine
sospesa. Non era solo un sopravvissuto che raccontava una catastrofe morale, ma un pensatore
ebreo, profondamente radicato in una tradizione che diffida dell'agio e guarda con sospetto l'anima
serena.
L'ebraismo ha sempre posto il disagio al centro del risveglio morale. Ad Abramo, il patriarca del
monoteismo, viene comandato di non rimanere dove si trova, ma di «andare avanti» - lech lecha -
un doppio comando di lasciare il luogo fisico e di allontanarsi da se stessi, dal proprio comfort,
dalla stasi. Mosè non diventa profeta in virtù della sua discendenza o della sua intelligenza, ma
perché si ferma a notare la violenza contro uno schiavo. La sua grandezza inizia con l'attenzione, il
turbamento. I profeti della Torah sono figure profondamente turbate. Camminano per le loro città
gridando contro l'ingiustizia, le loro parole sono come sirene contro l'autocompiacimento di chi vive
nell'agiatezza. Non sono venerati dai loro contemporanei, anzi vengono derisi, esiliati, ignorati.
Eppure, nella coscienza ebraica, sono la coscienza del popolo. Coloro che non permettono che la
sofferenza diventi normalità. Nelle parole del profeta Amos: «Guai a coloro che vivono nell'agio».
Non perché l'agio sia intrinsecamente sbagliato, ma perché genera dimenticanza. I profeti ci turbano
perché la dimenticanza è il seme della crudeltà.
Essere turbati, nell'immaginario morale ebraico, non è una debolezza. È una forma di forza. È ciò
che Dio loda in Giobbe: il suo rifiuto di accettare in silenzio le ingiustizie. Giobbe discute con Dio.
Abramo discute con Dio. Mosè discute con Dio. Il tratto distintivo dell'esempio morale ebraico è la
protesta. E non la protesta come rumore, ma la protesta come empatia, come rifiuto di accettare un
mondo in cui la vita umana non viene venerata.
Il turbamento di Levi non era performativo. Non era autocelebrativo. Era faticoso. Era uno
scienziato e uno scrittore, e ha usato gli strumenti di entrambe le professioni per illuminare i
meccanismi della disumanizzazione: il linguaggio, i sistemi e i silenzi. Ci ha mostrato non solo cosa
è successo ad Auschwitz, ma come è successo, come questa mancanza di reazione potrebbe
succedere ovunque.
E così voglio parlare non solo di Levi, ma di questa tradizione più profonda su cui ha lavorato. Che
dice: essere umani significa essere turbati. Diamo un'occhiata al mondo in cui viviamo. A Gaza
sono stati uccisi più di 30.000 civili, molti bruciati nelle loro case, i loro nomi mai registrati, le loro
vite a mala pena compiante. È una presa d'atto, un'emergenza che diventa politica. Gli esseri umani
non sono statistiche. Sono bambini che cercano le braccia delle madri, madri che cercano di
proteggere i figli. Dopo un anno e mezzo, ci sono ostaggi israeliani ancora nei tunnel, molti dei loro
nomi dimenticati dai titoli dei giornali, il loro destino non menzionato nelle conversazioni
quotidiane. La loro prigionia è uno specchio del nostro distacco.
In Sudan, ci sono quasi 9 milioni di sfollati per la guerra, la carestia e il collasso politico. Eppure,
per la maggior parte di noi, il Sudan rimane un nome su una cartina, e che forse non proviamo neppure a cercare. In Ucraina, una guerra che un tempo ha sconvolto la coscienza dell'Occidente
non fa più notizia. Ogni giorno muoiono civili. Abbiamo imparato a scorrere lo sguardo sugli
schermi oltre la loro sofferenza, a tenere gli occhi e la bocca chiusi. Ma, come ben sapeva Levi, il
silenzio non è assenza. È complicità. E mentre ci aggiorniamo in silenzio sulle notizie dai cellulari,
45 milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione, la forma più letale di
denutrizione. Corrisponde quasi alla popolazione della Spagna.
Fermiamoci un attimo a immaginare
la Spagna popolata esclusivamente da bambini che muoiono di fame di età inferiore ai cinque anni.
Proviamo a immaginarli mentre camminano come zombie lungo Le Ramblas, seduti per terra dentro
Reina Sofia, o che affollano ristoranti senza cibo...
Undici bambini muoiono di fame ogni minuto. Quasi un miliardo di persone va a letto affamato
ogni sera. Quando è stata l'ultima volta che avete avuto fame? Una fame perenne?
Per me, la fame è
un concetto astratto. Ma per chi ha bisogno di mangiare, non è qualcosa di astratto. È un bambino
che piange ed esausto si addormenta. È una madre che finge di aver già mangiato lasciare al figlio
l'ultimo cucchiaio di riso. Non è solo una vergogna, non è solo una tragedia. Primo Levi aveva
compreso qualcosa di essenziale: l'atrocità non inizia con la brutalità. Inizia con l'indifferenza.
Il pericolo più grande oggi non è una minaccia esterna, ma il fatto che non siamo più
sufficientemente inorriditi. Diciamo: «È terribile» e andiamo avanti. Diciamo: «Non ce la faccio
più», come se fosse un peso per noi e non la morte del figlio di qualcun altro. Nel Talmud c'è un
insegnamento: «Se qualcuno può protestare per i peccati del mondo e non lo fa, è responsabile dei
peccati del mondo».
Nei suoi ultimi sermoni pubblici, Papa Francesco ha insistito sul fatto che la nostra speranza risiede
in quella che ha definito una «cultura dell'incontro». Non la carità a distanza, non la pietà da uno
schermo, ma l'incontro. Come ha affermato: «Dobbiamo aprire il nostro cuore a coloro che sono
scartati e riconoscerli non come un peso, ma come uno specchio». Questa non è poesia. È strategia.
Non combattiamo l'indifferenza con le statistiche. La combattiamo con i volti, i nomi, le storie.
Questo è il ruolo della letteratura: non distrarci, ma disarmarci. Farci sentire più di quanto sia
comodo. Riumanizzare ciò che il mondo ha reso anonimo, gettare luce dove le ombre si sono
radicate più profondamente.
Io sbaglio costantemente. Vedo titoli che non clicco perché non voglio
sapere. C'è uno strano conforto nell'indignazione: ci fa sentire svegli, giusti, impegnati. Ma
l'indignazione senza azione è solo teatro. E io sono stato così spesso un attore. Quindi non vi parlo
stasera da una posizione di chiarezza morale. Sono al vostro fianco come qualcuno che cerca,
continuamente, di rimanere turbato. E fallisce. E ci riprova.
Da dove cominciare? La valanga di sofferenza non esiste solo nei titoli dei giornali di Paesi lontani.
Vive nei nostri quartieri. Si nasconde in bella vista. Cosa significherebbe guardare i senzatetto. Non
l'archetipo, ma l'individuo. L'uomo che dorme vicino alla stazione avvolto in coperte di recupero.
Lo guardiamo. Ma non lo vediamo. E che dire del bambino che mangia solo a scuola, per il quale le
vacanze estive sono una stagione di fame? Che dire del vicino malato di mente di cui non
conosciamo il nome? O dell'immigrato le cui qualifiche non vengono mai riconosciute? Le loro vite
non sono note a piè di pagina nelle nostre vite. Sono testi a sé stanti, testi sacri. E noi li stiamo
ignorando.
Primo Levi ci ha chiesto di fermarci a leggerli. Levi non ha scritto solo di Auschwitz.
L'immaginazione etica di Levi appartiene a questa tradizione. La sua scrittura è una forma di
testimonianza, non solo dell'orrore, ma della struttura della coscienza. In questo, il suo lavoro
riecheggia la filosofia di Emmanuel Levinas, che insegnava che il volto dell'altro è l'inizio di ogni
etica. Per Levinas, il volto umano non è una maschera, è una chiamata. Dice, senza usare parole:
«Non uccidere». Ma solo se lo guardiamo. Martin Buber, un altro pensatore ebreo la cui influenza
aleggia sull'opera di Levi, ha scritto della relazione «Io-Tu», quello spazio in cui un essere umano si
rivolge completamente a un altro, non come oggetto, ma come presenza.
L'etica di Buber non parte
dalle leggi, ma dall'incontro. E l'opera di Levi è piena di incontri di questo tipo: il compagno di
prigionia che non può dimenticare, la guardia di cui non ha mai saputo il nome, i momenti di
inaspettata gentilezza che hanno attraversato la nebbia dell'atrocità. Non sono momenti
sentimentali. Sono eventi etici.
Hannah Arendt, anch'essa segnata dai traumi del totalitarismo, sosteneva che il male spesso assume
la forma della banalità: non mostri, ma funzionari. Anche Levi lo sapeva. Non ha scritto solo della
crudeltà, ma anche dell'ordine. Di persone che seguivano le regole. Che spuntavano caselle. Che
non alzavano mai la voce. Eppure il loro silenzio ha facilitato la morte di massa. Questo è ciò che
intendeva quando ci avvertiva: è successo, può succedere di nuovo.
Ecco perché Levi ha scritto. Ed ecco perché dobbiamo essere lettori, di libri ma anche dei nostri
fratelli uomini. Leggere Sopravvivere ad Auschwitz non significa piangere i morti, ma leggerne i
volti e così facendo, fare della loro memoria una protesta contro il mondo così com'è. Ma la
memoria da sola non basta. È necessaria l'azione. Il Talmud ci dice che in un mondo alla deriva,
ogni piccola azione diventa un'àncora. Visitare i malati. Vestire gli ignudi. Istruire gli ignoranti. Non
sono opzioni caritatevoli, sono obblighi.
Sì, il mondo è vasto. Sì, le sue ferite sono profonde. Ma dobbiamo resistere alla paralisi causata
dalle dimensioni globali. Dobbiamo scegliere: interrompere il meccanismo dell'ingiustizia con la
nostra presenza. Colui che ha raccontato non solo le atrocità dei campi di concentramento, ma
anche il progressivo cedimento della coscienza, sarebbe addolorato da come il benessere e la
sicurezza degli ebrei in Occidente hanno, in troppi punti, offuscato il nostro impulso profetico.
Mentre un tempo eravamo un popolo la cui antenna morale vibrava ad ogni ingiustizia, siamo ora
anestetizzati dal nostro stesso successo. Siamo gli eredi di Abramo, che trattò con Dio per salvare la
vita a stranieri; di Mosè, che ruppe le tavole piuttosto che ignorare l'idolatria; di Ester, che rischiò
tutto per salvare il suo popolo. E di Levi, che capì che sopravvivere non è sufficiente: bisogna
testimoniare.
Cosa penserebbe Levi di una comunità che raccoglie milioni per i musei ma rimane in silenzio
mentre i vicini hanno fame? Che racconta la storia della propria schiavitù storica senza reagire con
urgenza all'attuale schiavitù di altri? Il cui valore fondamentale è: «Chi salva una vita, salva il
mondo intero», ma nella pratica spesso permette la morte. Non ricordiamo solo la sofferenza
ebraica, ma risvegliamone la responsabilità.
L'ebraismo deve vivere nel mondo. Perché il mondo sta gridando, e non ci sta chiedendo se
abbiamo acceso le candele il venerdì sera. Ci sta chiedendo: Dove eravate quando il voto è stato
rubato? Quando il profugo è stato espulso? Quando il padre ha sollevato in alto il suo bambino
morto? E noi dobbiamo essere in grado di rispondere, non con teorie o difese, ma con tremore e verità: Noi c'eravamo. Levi ci ha ricordato che «gli obiettivi del fascismo non sono stati raggiunti
convincendo, ma trasformando le persone in ombre». Il nostro compito è quello di trasformare le
ombre in persone: insistere sul colore, sull'individualità, sull'umanità.
Fonte: La Stampa