Marinella Perroni "Conclave: maschilità in questione"
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Ci penso da un bel po’ di tempo, e una volta ho provato perfino a parlarne con un uomo di chiesa, riconosciuto da molti come grande maestro di spiritualità, che è rimasto interdetto e mi ha risposto che non capiva, o meglio, che quello che dicevo non aveva né senso né fondamento.
La questione è semplice, forse perfino imputabile di ingenuità: tutta la spiritualità cristiana non si è andata elaborando ed esprimendo in forme diverse lungo i secoli che però non sono state altro che variazioni su uno stesso tema, cioè quello dall’assoluta centralità della struttura sessuale maschile e del rapporto dei maschi con la propria sessualità?
La spiritualità − e in forma privilegiata la direzione spirituale −, il pensiero teologico, soprattutto morale, la pratica dei sacramenti – in termini del tutto espliciti quelli della penitenza, dell’ordine e del matrimonio −, la catechesi e l’omiletica in modo spesso altrettanto diretto e ben più efficace, ma anche le pressioni affinché, non solo in Italia, i legislatori si dimostrassero in sintonia con l’orizzonte ideologico e valoriale cattolico, insomma la grande impalcatura di cui la Chiesa è stata al contempo ideatrice e garante ha avuto il suo punto di gravità sulla sessualità: fin qui nulla che non sia stato già studiato e discusso, messo a tema e approfondito.
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Che il sistema ascetico cattolico – come quello di altre filosofie e religioni – sia modulato sull’esperienza di una genitalità irrequieta e di una sessualità instabile, che le diverse regole di contenimento – per non dire di contenzione – siano volte a favorire la gestione di impulsi e pulsioni altrimenti ansiogeni, che tutta la “qualità” della vita morale e di quella spirituale sia stata spesso ridotta a un repertorio di clausole riguardanti l’astinenza da ogni forma di esercizio sessuale: tutto questo lo abbiamo studiato, ma soprattutto ne abbiamo visto le ricadute e subìto le conseguenze.
Ci è stato infatti anche raccontato dalle nostre madri, che avevano finalmente cominciato a esprimere il loro disagio o la loro rabbia, ancora indistinti, forse, ma non per questo meno fondati, nei confronti di una Chiesa che ha fatto del sesso sia un’ossessione che un’oppressione, e per questo l’hanno abbandonata.
Per la mia generazione, poi, il rifiuto programmatico di prendere sul serio la rivoluzione culturale legata al ’68, nella quale grande parte aveva avuto la liberazione sessuale, ha rappresentato una conferma del fatto che la Chiesa cattolica aveva accumulato nei secoli un grande debito nei confronti dell’antropologia teologica, perché manipolata e distorta proprio a causa di una visione della sessualità radicalmente androcentrica.
Inutile dire che tutto questo non fa che confermare che il patriarcato non è soltanto un assetto sociale, ma getta le sue radici in strutture antropologiche profonde di cui il sistema organizzativo e valoriale cattolico, evidentemente patriarcale, rappresenta allora una precisa espressione.
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Ho conservato i miei pensieri per me anche perché – lo ripeto – probabilmente, qualcun altro potrebbe dirmi che tutto questo è stato studiato e approfondito da decenni da parte di studiosi di storia della spiritualità o da teologi morali o da storici della teologia, ma anche da psichiatri e psicologi.
Non altrettanto divulgato, però, né fatto oggetto di riflessione pubblica, anche perché forte è stata la resistenza da parte della leadership ecclesiastica, spesso impermeabile alle spinte che vengono dalla ricerca teologica e poco sensibile alla necessità di continua revisione del pensiero teologico e della prassi morale e, soprattutto, di quanto ormai, con il tempo, è divenuto tossico per la vita della Chiesa.
Io, semplice biblista, ho provato a pormi la questione all’interno del perimetro della mia disciplina, e anch’io potrei forse dire qualcosa di sensato al riguardo, ma non è questo il punto di vista da cui vorrei guardare al problema che, paradossalmente, sta rivelando tutta la sua crucialità proprio in questi giorni che precedono il conclave.
È infatti sul peso di questa ipoteca androcentrica − a volte una vera e propria ossessione − che vorrei invece richiamare l’attenzione e di cui vorrei valutare l’implicita portata proprio nel momento dell’elezione di un nuovo papa.
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Non soltanto perché la chiesa cattolica si presenta in questi giorni davanti al mondo come un’istituzione per la quale una assemblea elettiva di massimo grado, da cui dipende uno dei momenti decisivi della sua vita e del suo assetto politico e spirituale, è composta inesorabilmente di tutti maschi e tutti tutori dell’assoluta patrilinearità della trasmissione del potere.
Ma soprattutto perché radicalmente patriarcale è la visione di questi uomini moralmente e spiritualmente vincolati a strutture interiori e a pratiche esteriori, a una visione teologica e a un immaginario religioso individuale e collettivo fortemente condizionati in senso androcentrico. Basta pensare alla cronaca di questi giorni di preparazione al Conclave.
Il fatto che al centro delle dichiarazioni dei cardinali riportate dalla stampa ci siano sempre l’omosessualità, la pratica della sessualità da parte dei divorziati risposati e dei diaconi ordinati, la distribuzione degli incarichi di governo della chiesa tra clero e laici e, ancor di più, tra uomini e donne la dice lunga sulle questioni ritenute dirimenti per la visione e le scelte del futuro papa.
Si dirà che la colpa è ascrivibile al ben noto atteggiamento dei nostri giornalisti, ma i dossier con cui i diversi cardinali sono stati presentati a tutti i partecipanti al Conclave, lo smentiscono: i criteri dirimenti per indirizzare la scelta sono solo le questioni che hanno a che fare con il sesso, cioè il riconoscimento o meno del diritto all’esercizio della sessualità da parte di omosessuali, di coppie unite in seconde nozze, di uomini ordinati come diaconi permanenti, il conferimento di ruoli ecclesiali alle donne e, su tutto e prima di tutto, il posizionamento su quanto concerne l’ambito della fecondazione e la piaga dell’aborto. Sconcertante, poi, lo sforzo di fare di tutt’erba un fascio e di ascriverlo nel suo insieme non solo alla tradizione della chiesa, ma alla sua inespugnabile “dottrina”.
Inoltre l’aver poi reso in un certo modo convenzionale il dramma degli abusi, praticati o insabbiati, può trasformarsi addirittura in alibi se non si rende pubblicamente ragione di una riflessione seria su delitti che vanno spiegati a partire da patologie sessuali alla cui genesi può aver contribuito anche la costruzione dell’immaginario religioso nei tempi della formazione.
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Mi inquieta allora l’idea che, ancora una volta, un momento di indubbio rilievo per la vita della mia Chiesa come un Conclave si muova sullo sfondo di un problema di così grande portata e di così lunga gittata come quello della inconsapevole o ostinata – non so quale delle due qualifiche sia peggio – affermazione di un orizzonte ideologico e religioso monosessista.
Non tanto o non solo per l’assenza di donne, che spesso sono figlie obbedienti di una Chiesa patriarcale, ma soprattutto perché, quando il patriarcato oltre che sistemico è anche strutturale, cioè interiorizzato come dimensione costitutiva dell’umano, la strada della liberazione si fa ben più lunga e, soprattutto, più difficile.
C’è un gran parlare in questi giorni di Spirito Santo, in modi più o meno teologicamente accettabili. Forse qualcuno potrebbe ricordare che proprio lo Spirito, che la tradizione biblica ci consegna come espressione della Sapienza di Dio e quindi del femminile, rappresenta, perfino all’interno della Trinità, il potenziale elemento di rottura di un’egemonia altrimenti pensata e venerata solo al maschile.
Anche questa volta il Conclave si aprirà con il canto del Veni creator Spiritus, ma siamo ancora lontani dal prendere coscienza di cosa significhi che lo Spirito agisce nella Chiesa come nella Trinità e ci facciamo colpevolmente consolare dal fatto che la dinamica trinitaria non deve sottostare ai lacci della temporalità e alla fatica dei piccoli passi. La Chiesa, invece, sì.
Fonte: SettimanaNews