Massimo Recalcati: “Abbiamo fallito e i ragazzi pagano il conto”
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Nell'epoca della disillusione culturale e della caduta dei punti saldi e dei mostri sacri, dei confini sgretolati, della consapevolezza etica, della rinascita woke e della definizione a tutti i costi, sembra che le nuove generazioni facciano fatica a trovare un proprio posto nella società reale e che abbiano la tendenza a vivere individualmente nella tela globale e interconnessa che le invischia. Tra dipendenze sempre più virtuali, narcisismo, crisi di identità, riduzione dell'individuo a "profilo" e caccia ai like al di fuori di qualsiasi significato profondo, è facile perdersi e confondersi. È facile non capire, e nel caso del divario tra generazioni, l'incomprensione è un classico.
Massimo Recalcati (che sarà ospite al Festival Internazionale dell'Economia, ma che è anche promotore del Moby Dick Festival di Noli) dedica parte della propria esperienza e della propria attività psicanalitica proprio a sbrogliare le matasse generazionali. A comprendere il disagio e a ipotizzarne cause e soluzioni.
Cos'è, oggi, il disagio giovanile? «Ci sono due forme prevalenti. La prima si manifesta nella sregolazione pulsionale, nella spinta a raggiungere un godimento immediato, in una libertà che vorrebbe escludere ogni esperienza del limite. Questo disagio si manifesta emblematicamente nelle dipendenze patologiche: alcolismo, tossicomania, bulimia, Internet addiction, per esempio, e nei comportamenti platealmente trasgressivi, quali sono il ricorso alla violenza, i comportamenti illegali, eccetera. La seconda assume le caratteristiche del ritiro sociale, dell'isolamento, del rifiuto del legame. Sono i ragazzi e le ragazze che abbandonano la scuola, abbandonano il lavoro e si rintanano nelle loro abitazioni che diventano dei rifugi dalla vita. La spinta competitiva, l'essere perennemente in gara, conduce molti giovani a rifiutare di far parte di questo mondo».
È un'autodifesa? «Diciamo che implica la messa in atto di una pulsione securitaria che spinge a far prevalere la sicurezza, la difesa dei propri confini, la tutela di sé, di fronte al rischio che il carattere ingovernabile della vita comporta. Tendenza che si è accentuata negli ultimi anni come effetto di una più generale destabilizzazione dell'ordine della realtà. Si pensi al Covid, alla crisi economica e alle guerre. La compromissione del futuro favorisce sempre l'incentivarsi della pulsione securitaria. Si tratta di una forma di sovranismo psichico».
Controllo di sé, in pratica? «Sviluppato all'eccesso, sì».
Ha a che fare con la maggiore consapevolezza di genere? «È indubbio che la vita sessuale non è più oppressa dai tabù della morale. Questo permette maggiore libertà e consapevolezza dei propri diritti. Ma proprio questa legittima libertà rischia di alimentare confusione e disorientamento».
La fluidità può confondere? «Non in sé stessa, ma non so quanto la cosiddetta fluidità dell'identità sessuale sia un guadagno o la manifestazione di un disagio. Se un tempo veniva rivendicata la libertà sessuale contro la repressione della morale, oggi si rivendica la libertà di decidere l'identità del proprio sesso. È una seconda grande rivoluzione sessuale. Per la psicoanalisi l'identità sessuale è però sempre il frutto di una scelta inconscia. Occorrerebbe non perdere di vista questo elemento centrale».
Le rivoluzioni spesso derivano da oppressioni precedenti. «Questa, che si manifesta anche attraverso la prima declinazione del disagio, cioè la ricerca compulsiva dell'appagamento immediato, deriva dal fatto che viviamo nel tempo del dominio incontrastato di quello che Lacan chiamava "discorso del capitalista". Questo discorso sostiene l'illusione che la salvezza sia data al consumo dell'oggetto. Per questo mette a disposizione illimitatamente qualunque tipo di oggetto per colmare la nostra mancanza. In realtà, l'astuzia di questo discorso consiste nel fare in modo che gli oggetti creino sempre nuove pseudo-mancanze. Una mia paziente diceva: «Vado al supermercato per vedere quello che mi manca». In questo caso l'oggetto non colma la mancanza ma la elettrizza, la riduce alla dimensione convulsa di una domanda continua di nuovi oggetti. Pasolini vide per primo gli effetti catastrofici di questa "mutazione antropologica"».
Cioè? «Il piegamento della società verso il mondo omologante del consumismo. Lo schiavismo confuso con l'illusione di essere padroni. Era il 1974 e fa impressione, se pensiamo al futuro».
Le nuove generazioni lo vedono, il futuro? «Ne percepiscono la drammatica incertezza. Che cosa abbiamo lasciato a loro in eredità? Mancanza di lavoro, di prospettiva, un pianeta saccheggiato e ridotto al collasso, guerre crudeli, lotte di religione, miti fasulli legati al successo individuale e al profitto. Non siamo stati in grado di trasmettere loro un'eredità viva. Gli abbiamo lasciato un corpo morto da trascinare. Hanno tutte le ragioni di sentirsi spaesati. Il disagio delle nuove generazioni non può mai essere scorporato dal fallimento delle vecchie».
La psicanalisi può aiutare? «Il denominatore comune del disagio giovanile contemporaneo è la fatica di desiderare, la perdita del nesso profondo che unisce il desiderio alla vocazione. Sebbene i giovani vivano in un tempo inedito di libertà di massa, in molti di loro la vita non sembra essere animata dalla forza del desiderio. È quello che io definisco come la cifra neomelanconica del disagio contemporaneo. Nella festinazione perpetua, nella girandola spettacolare dei miti del consumo e dell'immagine, la fatica di desiderare mostra il vero volto del discorso del capitalista. Sotto l'obbligo del divertimento senza freni, dell'accumulo dei like, della coltivazione narcisistica del proprio profilo, nell'apatia frivola del godimento, si nasconde il volto triste di un soggetto melanconico, separato dal suo desiderio».
Quindi? «Quindi sì, ma va ritrovato lo slancio verso l'aspirazione».
a cura di Giulio D’Antona
Fonte: La Stampa