Vito Mancuso “Le religioni si pongano al servizio dell’etica”
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Rinchiusi nella gabbia di fanatismi religiosi, polarizzazioni ideologiche, pregiudizi e culto dell'io, spesso non ci accorgiamo neanche di non essere liberi. Eppure solo noi possiamo rompere le sbarre della prigione che abbiamo costruito.
E in questo contesto il bisogno di un orientamento spirituale capace di dialogare con la ragione e con il cuore si fa sempre più pressante. Prova a rispondere a questa esigenza il teologo Vito Mancuso nel suo ultimo libro "Il dono della gioia", una raccolta che riunisce tre sue opere precedenti ("Non ti manchi mai la gioia", "La via della bellezza" e "Il coraggio di essere liberi") creando un itinerario interiore profondo ma al tempo stesso concreto, una via laica ma non materialista che conduca, tra etica e trascendenza, alla scoperta della bellezza, della meraviglia, dell’armonia.Lei parla di una filosofia della liberazione, in cosa consiste e qual è la meta del percorso che delinea nel suo libro?
«La parola chiave che racchiude il senso di tutto il percorso è consapevolezza, vale a dire il saper riconoscere che non siamo liberi, che viviamo in trappola tutta la nostra vita» …
A quale trappola si riferisce?
«La trappola è lo stato di prigionia in cui tutti ci troviamo, una condizione che ci costringe a correre indipendentemente dalla nostra volontà sul tapis roulant dell'esistenza che procede verso un destino che non abbiamo scelto. Perché, così come partiamo da una generazione iniziale non voluta, andiamo verso una degenerazione finale altrettanto non voluta. E in mezzo a questo c'è tutta una serie di determinazioni, di costrizioni che riguardano la nostra psiche, il nostro corpo, i nostri rapporti sociali, la lingua che parliamo, le condizioni economiche."
Come possiamo uscirne?
«Il primo passo consiste nella percezione della trappola, della prigionia, dell'essere incatenati nella caverna, per dirla con Platone. Quindi il processo di liberazione non può che partire dalla consapevolezza».
Ma che cos'è la libertà? Esiste davvero?
«La libertà non è data, ma si conquista ed è l'unione di tre cose, consapevolezza, creatività e responsabilità; raggiungerla richiede un lavoro profondo sulla propria energia interiore che possiamo chiamare mente, ragione, cuore, anima. La maggior parte delle persone non pensa, non riflette, ripete quello che il leader o l'influencer di riferimento ha detto. Ma quando un essere umano agisce svincolato da sè, dalle proprie determinazioni, dalla volontà di affermazione, allora agisce in modo libero e consapevole».
In questo percorso Dio dove si colloca?
«Può rappresentare la via per la liberazione ma spesso può essere a sua volta una trappola». In che senso? «La coscienza religiosa, lo conferma anche la cronaca contemporanea, può essere forse la più pericolosa trappola dentro cui un essere umano può capitare se diventa chiusura, estremismo, e all'opposto, può essere una sorgente di consapevolezza e di liberazione».
Vale per tutte le religioni?
«Certo, la differenza sta nel modo in cui vengono vissute, se poste al servizio di una presa di coscienza pura, disincantata e al contempo carica di calore umano, allora rappresentano uno straordinario momento di liberazione, altrimenti non fanno altro che imprigionarci ulteriormente. Gli esempi più clamorosi li troviamo nei fanatismi dei nostri giorni, da un lato quello di Hamas, che ha portato alla strage del 7 ottobre 2023 e dall'altro quello, altrettanto terribile, dell'attuale governo di Israele, ed entrambi nascono da quella diabolica connessione di religione e politica che rappresenta la trappola di cui parlavo».
Qual è il meccanismo che fa scattare la trappola?
«Molte persone ritengono che la religione sia la cosa più importante in assoluto, che tutto debba essere al suo servizio e ciò porta all’intolleranza».
La sua riflessione sulla proposta del ministro israeliano Itamar Ben Givr di una sospensione totale degli aiuti umanitari, ha dato vita a un acceso dibattito. Lei si è domandato come sia possibile che proprio i più religiosi siano i più carichi di odio, arrivando a parlare di un "lato oscuro dell'ebraismo". Le polemiche non sono mancate….
«Non è stato colto il senso della mia provocazione, in quell'intervento io ho rivolto un appello alla coscienza religiosa mondiale, un invito a prendere atto del fatto che tutte le religioni hanno fallito, perché nessuna é stata all'altezza delle proprie promesse di rappresentare l'amore di Dio e la sua volontà di pace. Ovviamente hanno fallito anche gli ateismi perché quando hanno avuto la possibilità di costruire un mondo secondo i loro principi non hanno raggiunto i loro obiettivi e di sicuro non hanno risolto i problemi dell’umanità».
Allora cosa bisogna fare?
«Dobbiamo capire che c'è qualcosa di più importante della religione, che è l'etica e le religioni si devono porre a servizio di un'etica mondiale».
In che modo?
«Facendo pulizia in casa propria, cercando di capire quali sono state le ragioni del fallimento che non sono riconducibili solo all'imperfezione umana ma anche all'imperfezione della religione in se stessa. Ci sono pagine della Bibbia ebraica che sono cariche di odio e di violenza e che generano odio e violenza in chi le legge e le ritiene parole di Dio. E lo stesso vale per il Corano e per il Nuovo Testamento».
Da dove nasce tutto questo odio?
«Le religioni non hanno solo a che fare con il divino ma anche con la ricezione umana del divino stesso e questa è spesso viziata da interessi, da incomprensioni. Tutte le religioni, in quanto prodotto umano, sono imperfette ma sono perfettibili e il ruolo della teologia è proprio questo: perfezionarle alla luce del principio etico. Altrimenti diventano solo strumenti di potere».
Il percorso da lei suggerito conduce alla gioia, che cos'è e come si conquista?
«La gioia è accordo di sé con sé, non dipende dal mondo esterno. Non è felicità, che è fragile e condizionata dagli eventi. La gioia nasce da una coscienza morale che analizza se stessa e trova pace, serenità, pulizia, integrità. È un'esperienza spirituale interiore, che può avere o meno un nome religioso».
Le ripongo la domanda di prima: Dio che ruolo ha in questo processo?
«Io penso che Dio sia dentro di noi, quando rispondiamo a quella domanda di bene, di bontà, di bellezza che ci attraversa, che sorge dentro di noi, stiamo facendo il più grande atto di culto possibile. Questa voce della coscienza si può benissimo chiamare Dio. lo la chiamo Dio. Se qualcuno lo chiama in un altro modo va bene lo stesso, la sostanza non cambia».
Quindi si può fare esperienza del divino anche senza credere in Dio?
«Assolutamente. Penso a figure come Gino Strada: si dichiarava ateo, ma curava chiunque, ovunque, senza distinzione. Se sono vere le parole del Vangelo ("avevo fame e mi avete dato da mangiare…"), Strada è un grande esempio di esperienza spirituale profonda che consiste nel mettersi al servizio del bene, della verità dell'amore. Dio è nella coscienza morale, non solo nei riti e nelle preghiere».
A proposito di riti, cosa porterà Papa Leone XIV alla Chiesa, innovazione o ritorno alla tradizione?
«I ruoli fondamentali di un pontefice sono due, governare la Chiesa e rappresentare una coscienza profetica. Questo mi sembra un Papa molto attento a ricucire l'unità interna, l'armonia della Chiesa, soprattutto dopo un pontificato come quello di Francesco che ha puntato al superamento della tradizione. Sta recuperando apparati, paramenti, ritualità, tra un po' sicuramente riporterà il cardinalato in quelle diocesi che l'hanno sempre avuto, come Genova. Vedremo se saprà anche svolgere anche l'altro compito, quello profetico che richiede temperamento e coraggio».