Fabio Rosini “La misericordia è la natura dell’equilibrio”
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Dire “ma anche no” non è solo un vezzo linguistico: è un atto di libertà. Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et (San Paolo, pagine 160, euro 16,00) è il titolo del nuovo libro di don Fabio Rosini, di cui pubblichiamo un estratto.
Per mantenere un equilibrio sano di fronte alle realtà della vita abbiamo bisogno di distacco, perché solo da lontano si possono vedere gli oggetti nella loro completezza. Il distacco richiede perdita, e la via della libertà passa per l’elemosina. Ci è utile l’autoironia, laddove il non prendersi troppo sul serio è una valvola di oggettività; mai smettere di ridere di sé stessi. Chi coglie l’aspetto comico delle cose è intelligente; chi non è autoironico è rigido (e spesso anche insopportabile). Quindi, abbiamo bisogno di astinenza dalle cose che ci fanno perdere il contatto con la valutazione serena del reale.
Ecco, bisogna astenersi da ciò che ci inebetisce, da ciò che ci ristupidisce o ci congestiona. E abbiamo scoperto che la relazione diretta con Dio nella preghiera è capace di relativizzarci, rimettendoci al nostro posto. È una via di verità. Serve assai misurarci con l’unica tautologia significativa: Dio è Dio. Le tautologie in genere non sono rilevanti, ma questa è la tautologia che ha un significato profondo. Ripetere “Dio è Dio” è molto importante e gli si possono dare vari accenti. Dio è Dio, lui non noi. Dio è Dio, cioè Dio non è una cosa piccola … stare davanti a lui e riprendere il nostro posto nella realtà per ricalibrare la percezione dei drammi, delle paure, è via sana di equilibrio.
Successivamente abbiamo parlato della santa pigrizia: quell’attitudine per cui ci sono cose in cui essere pigri, ossia tutte le fatiche inutili che dobbiamo saper evitare. Subito dopo abbiamo affrontato la santa avarizia, che vuol dire mantenere sempre il contatto con la vera ricchezza, la percezione di ciò che è realmente prezioso. C’è anche da beneficiare di una santa superficialità, per essere meno feroci nell’analisi delle cose, cioè meno minuziosi e pedanti. Stare attenti ai dettagli diventa una tortura. Poi, abbiamo ricordato il motto evangelico “a ciascun giorno basta la sua pena”; tradotto, ogni giorno avremo la grazia per affrontare la sfida di quel giorno. Il domani sarà sempre diverso da come lo pensiamo, perché quel che noi pensiamo è prevalentemente una proiezione; i traumi già vissuti li riproduciamo sullo schermo del futuro ed è bene stare con i piedi nel presente. C’è da praticare, inoltre, l’arte di interrompersi, di sapersi divincolare dalle programmazioni. E c’è anche l’arte di contraddirsi. Nessuno che non cambi idea può mai diventare più maturo di quanto è. Nessuno che non metta in discussione ciò che ha affermato può imparare qualcosa di nuovo.
Tutto questo viaggio ha una meta che coincide con l’origine. Qual è l’urgenza di questo viaggio? Lo scopo è la misericordia. In un certo senso identificare tale meta a tutto il percorso è rispondere alla domanda: «Cui prodest?». Che si lavori sull’equilibrio, sull’empatia e sulla misericordia. Un approccio privo di assoluti e banalizzazioni gioca a favore della pacatezza e del distacco che sono necessari per la comunione fraterna.
Chiariamo un punto vitale: che cosa è imprescindibile nella vita cristiana? Qual è la cosa che conta di più? Quando si può affermare che un cammino spirituale è arrivato al suo buon fine? Che cosa dobbiamo raggiungere nella nostra crescita spirituale? Non c’è ombra di dubbio, la misericordia. Un cristiano privo di misericordia non è cristiano. Senza la misericordia tutto è falso e lontano da Dio, che di per sé è misericordia.
Proprio la sottovalutazione di questo centro esistenziale può generare il problema che abbiamo affrontato. Quando si hanno altre priorità partono le patologie. Solo la misericordia lascia al centro le persone. Se il centro diventa la verità o la giustizia o la perfezione personale, le cose cambiano e si perde il rapporto col reale, perché questi non sono centri autentici. A meno che per verità non intendiamo l’amore; a meno che per giustizia non intendiamo la misericordia, a meno che per perfezione personale non intendiamo l’amore, il perdono, la capacità di amare.
Alla fin fine abbiamo bisogno di percepire la rilevanza di tale bersaglio. In nome di cosa relativizzarsi? In nome della santa paura di diventare incapaci di piegarsi all’amore; atto che richiederà sempre relativizzazione e capacità di assecondare la realtà, le situazioni, il bene altrui. Vivere in questa maniera richiede elasticità. Crescere una nuova generazione nella misericordia richiede il saper ascoltare e il sapersi piegare alla realtà dell’altro; entrare nella sua dimensione, mettere da parte la nostra statura e postura. Quando parliamo di misericordia, come ogni volta che parliamo dell’amore, ci sono tanti malintesi, tante mistificazioni. Normalmente noi abbiamo una mistificazione di fondo che è quella di confondere l’amore e la misericordia con attitudini personali o aspetti del carattere. Non parliamo di questo tipo di realtà. Oppure pensare che l’amore è ogni tipo di movimento che da me va verso l’altro, ogni tipo di affetto. Dobbiamo ricordare perché i cristiani scelsero parole diverse per parlare dell’amore di Cristo, per parlare dell’amore che veniva annunciato e promulgato dalla redenzione di Cristo. Se i latini avevano la parola amor, perché i cristiani scelsero caritas per intendere l’amore? Perché usare tale termine inusuale? I greci avevano altri termini, philia, eros… perché mai i cristiani scelsero agape, per spiegare questo tipo di amore? Perché l’amore di cui parliamo non è il semplice, istintivo amore umano e, per essere chiari, l’amore umano non è l’amore di Dio. Dio ama in una forma tale che non era né praticabile né comprensibile se non scendendo dal Cielo. Richiedeva l’incarnarsi, morire in Croce per mostrare il volto del Padre e per questa via proclamare la vita e donarci il suo Santo Spirito. L’amore cristiano coincide con lo Spirito Santo, nasce dalla gratitudine e dall’amore di Cristo che è grato al Padre. Lui che essendo Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero è gratitudine pura e tutto l’amore che ha verso di noi sgorga dall’amore che ha verso il Padre, e noi siamo amati in una dimensione che ci fa entrare direttamente nella corrente di amore interna alla Santissima Trinità. Ciò che noi riceviamo nella misericordia di Dio è la sua vera propria natura, non è il frutto della nostra psiche, non è il frutto del nostro sforzo, non è una cosa tanto ridicola e tanto povera quanto ciò che la natura umana può produrre. Per questo si definisce virtù teologale. Solo Dio la può generare nell’uomo. [...]
Non trovo migliori parole per concludere questo viaggio che con il capitolo tredicesimo della Prima lettera ai Corinzi, l’inno alla carità. Una grande opera di relativizzazione compiuta da Paolo. [...] Anche conoscere tutte le lingue, anche avere una sapienza che conosce tutti i mi-steri è nulla di fronte all’amore. Avere una fede da trasportare le montagne ma non avere l’amore … anche no. È possibile avere fede senza avere amore? Secondo san Paolo, sì. È possibile avere anche tanti doni, tanti carismi, tante cose, tante caratteristiche meravigliose, umane o cristiane, ma non avere l’amore? È tragicamente possibile. Ecco, questo è il vero assoluto. Tutto il resto è vanità.
Fonte: Avvenire