Israele e Gaza: chi soffoca la cultura, uccide la pace
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conversazione con Maria Teresa Milano
In Palestina e in tutto il Medioriente, come del resto in Ucraina, la guerra si autoalimenta.
Oltre a causare morte, sofferenza e distruzione irreparabili, amplifica fratture, accresce la diffidenza reciproca e cristallizza la negazione dell’altro in una eterna ostilità. Le stesse motivazioni che hanno scatenato il conflitto si fondono in un punto di non ritorno e rendono sempre più remote la pace e la convivenza civile. Tutto è avvolto dal pulviscolo della distruzione, l’aria è ammorbata dalla putrefazione, e viene incenerita anche la cultura, l’unica speranza di salvezza, l’unico reale strumento di dialogo e conoscenza reciproca.Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, vi furono in Occidente massicce ritorsioni a livello diplomatico, che senza distinzioni di sorta interruppero bruscamente sia rapporti commerciali ed economici, il che era del tutto plausibile, sia relazioni di tipo culturale e accademico. A Paolo Nori, traduttore e grande esperto di cultura russa, fu ritirato l’invito a tenere corsi e incontri pubblici dedicati a Dostoevskij. Come a dire: la letteratura e la cultura non sono più patrimonio acquisito dell’umanità, ma armi di propaganda e diretta espressione della condotta di un governo e dell’attitudine di un popolo. Se questo è l’assioma, dopo il nazismo avremmo dovuto cancellare per sempre la memoria di Wagner o di Hegel, semplicemente in quanto tedeschi.
Maria Teresa Milano, profonda conoscitrice e divulgatrice della cultura ebraica, sta vivendo le tragedie di Gaza e del 7 ottobre con grande sofferenza, che va al di là dell’empatia e della solidarietà umana che noi tutti proviamo nei confronti delle vittime incolpevoli dell’una e dell’altra parte.
Maria Teresa, le chiedo una testimonianza in merito al suo lavoro quotidiano di scrittrice, traduttrice, musicista e conferenziera specializzata nella cultura ebraica, che presumibilmente la espone a critiche politiche e obiezioni etiche alle quali lei non si sente titolata a rispondere. Che rischio corre la cultura ebraica, che tanto ha dato all’Occidente e al mondo, di fronte al cataclisma del terrorismo e della guerra permanente?
Soprattutto negli ultimi tempi, mi sono sentita domandare più volte in diversi incontri pubblici come posso, dal punto di vista etico, continuare a fare questo lavoro. Non nascondo che la cosa mi crea disagio a vari livelli, ma sono ben consapevole del fatto che il mio disagio personale e le conseguenze pratiche, peraltro comuni ad altri ebraisti ed esponenti della cultura, non sono certo il nodo vero della questione. In questo momento nessuno di noi ha il diritto di mettere se stesso e le proprie traversie al centro, perché il punto fondamentale è un altro, ovvero la riflessione sui meccanismi che sono all’origine di tutto questo. Il punto è capire come e perché si è generato questo cortocircuito nella percezione collettiva per cui l’ebraismo in toto viene identificato con il governo attuale di Israele; come e perché si sta sempre più radicando la pericolosa sovrapposizione tra lo studio e l’insegnamento di una lingua, di una storia e di una cultura di millenni con la situazione politica contingente, che è dettata dalle scelte di Netanyahu e dei suoi collaboratori. Sono ebraista e con forza mi dichiaro contraria alla guerra, alla violenza, all’estremismo religioso e all’uccisione di migliaia di esseri umani, ma mi rifiuto di accettare che vengano chiusi in un cassetto e ostracizzati la lingua ebraica e i suoi testi, in primis la Bibbia, patrimonio comune di diverse società e diverse fedi, perché non è cancellando la storia di un popolo che si può dare possibilità e dignità alla storia di un altro popolo. Le scelte politiche si combattono con la volontà di conoscere e il coraggio di dialogare e non con le stigmatizzazioni, le urla o con gli slogan, utili solo a polarizzare ancor più le posizioni. Stiamo risalendo una china pericolosa e di questo passo arriveremo a cancellare non solo concerti, eventi e pubblicazioni, ma anche i corsi in università, cosa che peraltro ho visto succedere personalmente di recente, e ci ritroveremo a fare i conti con la rimozione della nostra stessa storia. E questo, sono certa, sarà una perdita per tutti e non avrà alcun influsso positivo né sulla risoluzione della guerra né sulla tragedia che si sta consumando.
Quali saranno le conseguenze a lungo termine della dolorosa vicenda dei massacri del 7 ottobre e della successiva carneficina in Palestina? Lei vede il rischio che si rinfocoli il mai sopito antisemitismo? E da cultrice e divulgatrice della cultura ebraica, quanto la influenza o quanto può interferire con il suo lavoro l’attuale gravissima situazione di impasse fra Israele e Palestina?
Le conseguenze saranno terribili innanzitutto per chi vive in quella terra, che viene deturpata e distrutta giorno dopo giorno e non solo fisicamente. Mi domando quale sarà l’esito soprattutto sulle giovani generazioni, che vivono la quotidianità di un odio sempre più violento e dei soprusi, che si abituano alla banalità della distruzione e assistono loro malgrado all’ascesa di un estremismo religioso che stravolgerà lo Stato e la vita di entrambe le parti. Questo non solo influenza il mio lavoro, ma mi tocca profondamente come persona, per il legame affettivo che ho con quella storia e quella cultura e con molte persone a me care, che stanno soffrendo. Non credo sia necessario essere esperti di geopolitica per rendersi conto che tutto questo avrà ripercussioni notevoli anche sull’Europa e certo, si inasprirà l’antisemitismo. L’odio per gli ebrei in toto non ha nulla a che vedere con l’impegno costruttivo nel garantire il diritto alla vita di entrambi i popoli, la pacifica convivenza in una delle forme politiche possibili che necessita urgentemente di essere definita e il diritto all’esistenza dello Stato. L’antisemitismo non salverà nessuno e contribuirà solo ad alimentare sentimenti di odio e di violenza che, come ben sappiamo, sono il peggior ostacolo in qualsiasi processo di dialogo e di tutela della dignità umana. Nelson Mandela docet, e con lui molti altri.
Viviamo un momento storico in cui il dialogo, il rispetto reciproco e la solidarietà fra popoli e fra nazioni hanno raggiunto quasi il livello zero. Perché la cultura non riesce a disinnescare l’incomunicabilità e le reciproche volontà di annientamento?
Credo che le ragioni siano molteplici, ma mi limito qui a una semplice osservazione in merito a quanto è successo nel mio ambito specifico di lavoro dopo il 7 ottobre. In questo periodo, a quasi due anni dall’inizio della guerra in corso, si comincia a parlare insistentemente del boicottaggio commerciale, una forma di protesta scelta da tempo nei confronti di aziende di cui non si condividono le scelte dal punto di vista etico, che ha una sua ragione. Il primo boicottaggio, però, subito dopo lo scoppio del conflitto, è stato quello che potremmo definire culturale, nel senso che alcuni atenei italiani (ma non solo) hanno immediatamente sospeso i rapporti con le università e i centri di ricerca in Israele. In questi due anni sono stati annullati progetti di scambio tra accademie, eventi culturali di vario genere e concerti, con il risultato che sono stati colpiti gli spazi dell’istruzione, della cultura e dell’arte, in cui di fatto ci sono i presupposti per creare un dialogo e in cui si macinano idee. Credo quindi che la cultura in questo momento non riesca a disinnescare l’incomunicabilità perché le viene impedito di farlo e lo stesso vale per il mondo dell’editoria. Colpire professori, scrittori e artisti israeliani, che peraltro esprimono pubblicamente un forte dissenso verso la politica attuale e la guerra, significa eliminare ogni possibilità di far agire chi ha gli strumenti cognitivi ed emotivi per creare ponti e instaurare un dialogo.
Fra i temi che lei ama trattare, sicuramente c’è quello della discriminazione e della sottovalutazione della donna. Nei suoi libri di storia ebraica, lei restituisce dignità a figure di donne emblematiche, ma misconosciute. In questo senso, la storia di Regina Jonas, la prima rabbina donna dell’era moderna, morta nel campo di concentramento di Auschwitz, rappresenta un tassello importante nel cammino di emancipazione femminile, in Israele ma non solo. Ci può spiegare perché?
Regina Jonas è stata l’origine del mio interesse per le vicende delle donne e resta un punto di riferimento fondamentale, non solo per i tanti temi che la sua figura fa emergere – il diritto allo studio, la questione del rabbinato femminile, il vissuto di fede radicato in un pensiero autentico e non contaminato dalle sovrastrutture, la forza della resilienza e il senso della resistenza spirituale – ma soprattutto per il suo punto di vista sul “posto” delle donne. Regina Jonas parte da un’asserzione fondamentale: secondo la Bibbia, l’essere umano è stato creato maschio e femmina, a immagine e somiglianza di Dio, e poiché la creazione non prevede gerarchia, l’uomo non ha alcun diritto di stabilirne una. Il ragionamento non fa una piega e la sua osservazione, lineare e inconfutabile, di fatto toglie la maschera a secoli di una interpretazione testuale maschile che ha letteralmente fatto le acrobazie per dimostrare l’esatto contrario. La prima rabbina della storia ha scritto poco, ma ha agito molto e si è spesa in ogni modo per ricordare nei suoi sermoni che è diritto e dovere di ciascun essere umano sviluppare i talenti che Dio ha posto nei cuori di tutti, uomini e donne. Proprio lei, che è rimasta sempre legata all’ortodossia, dichiarando di non appartenere ad alcun movimento femminista e di non voler fare alcuna rivoluzione, è divenuta il simbolo di una rivoluzione radicale, per cui le donne non devono emanciparsi dalle contingenze e dalle situazioni, ma da un pensiero. L’uguale dignità risiede nella natura stessa degli esseri umani e la riduzione al silenzio e la discriminazione delle donne sono frutto della storia e delle scelte politiche, ma non possono essere in alcun modo ricondotte a quel testo “sacro”, la Bibbia, che dichiara l’esatto contrario. Per Regina Jonas, l’acquisizione del diritto alla parola e alle azioni da parte delle donne è una semplice applicazione della giustizia e qualsiasi uomo che voglia dirsi una brava persona, a maggior ragione se si tratta di un uomo di fede, non dovrebbe neppure metterlo in discussione.
A proposito di donne “sottovalutate”, con Le indomabili donne della Bibbia (Sonda, 2021) lei ci offre la possibilità di conoscere un lato quasi inedito del testo sacro: la testimonianza della nascita delle prime femministe della storia. E svela come fra i miti pop che regnano nella nostra contemporaneità (un esempio su tutti: Lady Gaga), molti sorprendentemente si ispirano a figure e opere antichissime…
Tutti i personaggi della Bibbia, donne e uomini, sono profondamente umani e riflettono la miriade di sfaccettature del nostro animo. Sono ben lontani dall’essere paradigmi o modelli da seguire o non seguire e quel processo che potremmo definire “religious editing” condotto nei secoli, volto a ripulire e a riplasmare i tratti più problematici dei personaggi per edificare il lettore, ha creato nel tempo una serie di immaginette che, a ben guardare, troppo spesso risultano essere lontane dalla vita reale e dunque anche poco utili per farsi domande di senso su di sé. Le figure femminili, in particolare, sono state messe ai margini, male interpretate ed eccessivamente spiritualizzate, mentre invece sono decisamente concrete e vive: amano, odiano, subiscono la violenza o la agiscono, sono mogli, madri, figlie, sorelle, regine, profetesse, prostitute e l’universo femminile biblico è nientemeno che l’universo femminile in genere, in ogni tempo e luogo. Credo sia per questo che le artiste di ogni epoca e ambito si sono lasciate e si lasciano ispirare dalle donne della Bibbia e non per moda o per vezzo e curiosità, ma proprio perché colgono il senso profondo di quelle storie, per cui ogni donna biblica è “qualcuno con cui camminare”, per parafrasare il titolo di un indimenticabile romanzo di David Grossman: il coraggio di Eva, la voce di Miriam, la bellezza di Sarah, l’autorevolezza di Deborah, la fragilità di Lea, il desiderio della protagonista del Cantico dei Cantici, le pene d’amore di Micol, la spietatezza di Yael, la determinazione di Maria… Le loro vicende fanno risuonare le corde in ogni donna e creano uno spazio di consapevolezza.
Perché la Bibbia è uno dei libri più importanti che l’umanità abbia mai concepito?
Perché credo sia uno dei più poderosi strumenti maieutici dell’umanità e cambia con noi, perché in ogni momento della vita ci suscita domande differenti che ci spingono a leggere quanto ci accade, invitandoci a scendere nel nostro profondo. È un testo straordinario che porta messaggi universali, decisamente vicini alla nostra esperienza di vita e privi di qualsivoglia moralismo, in un equilibrio di forza e fragilità che ne mette in luce il carattere profondamente umano.
Parlandoci dei suoi progetti musicali, ci può spiegare perché la musica può essere veicolo di pace, di dialogo, di accoglienza e di inclusione?
La musica è un mezzo potente per veicolare contenuti e messaggi, sia in quanto tale sia nella realizzazione di collaborazioni tra artisti che appartengono a culture, società e storie diverse, anche in conflitto tra loro. Ho lavorato con musicisti israeliani e palestinesi in progetti che avevano esattamente questo scopo e ho toccato con mano la potenza di una narrazione di pace che denuncia una situazione politica specifica senza dover distruggere l’identità della parte ritenuta “nemica”. È esattamente il lavoro che sta facendo da anni Noa, artista e attivista, ambasciatrice Onu per la pace, su scala decisamente più ampia di quanto possiamo aver fatto noi. Collabora con Mira Awad fin dai tempi del corto d’animazione Pace of Peace realizzato da studenti d’arte israeliani e palestinesi e scende in piazza ormai da due anni insieme a migliaia di israeliani per protestare contro il governo. In questi giorni è in concerto in Italia con Miriam Toukan, cantante, avvocato e attivista per la pace. La musica unisce chi combatte per lo stesso ideale e non a caso in questo momento un po’ ovunque in Italia le persone organizzano flashmob con centinaia di persone, con decine di cantanti e musicisti professionisti che suonano e cantano insieme Bella Ciao, a ragione o a torto divenuta simbolo universale di resistenza e credo che questo funzioni decisamente di più nell’esprimere il desiderio concreto di pace rispetto ai post virulenti sui social in cui l’unico obiettivo è colpire e attaccare un singolo o una parte coinvolta nel conflitto.
Marco Bevilacqua