Massimo Recalcati "Elogio dell’isolamento purché consapevole"
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12 Agosto 2025
Può diventare una solitudine ricca di presenze, desiderio di lontananza che non si lascia catturare dal consumo compulsivo.
La parola isolamento porta con sé una profonda ambivalenza. È come un ramo che si biforca tra aspirazione e maledizione. È ciò che si rende ancora più manifesto nella stagione estiva e nel tempo delle vacanze. Da una parte c’è l’isolamento come necessità di sopravvivenza, di separazione dal frastuono e dall’obbligo sociale della festinazione perpetua, come, appunto, aspirazione a una condizione di vita capace di ritagliarsi lo spazio e il tempo di un respiro sottratto al rumore assordante del mondo. Dall’altra parte c’è l’isolamento come caduta nel vuoto e nell’insensatezza, come assenza di contatto, di legame, come abbandono.
Da un lato, dunque, l’isolamento come resistenza, anche estetica, di chi cerca nella
solitudine una presenza più densa, meno artefatta di quella propagandata come la vera
vita, sempre in forma e portatrice di benessere, nella vetrina artefatta dei social. È
l’isolamento come movimento di separazione attivo dall’obbligo del divertimento. È
l’hortus conclusus dove al clamore e al frastuono della mondanità subentra la pace
della sera e il suo silenzio. È l’isolamento come scelta, come atto di difesa, come fuga
dal chiasso assordante della massa per preservare uno spazio insaturo. È il gesto
consacrato da Leopardi che sceglie il “natio borgo selvaggio” come ultimo baluardo
contro la vanità senza verità del mondo; è la torre di Rilke, lo spazio sacro che permette
l’ascolto delle voci più lontane; è la stanza tutta per sé di cui parla Virginia Woolf.
Ma è anche una fantasia ordinaria che accompagna la vita costantemente oppressa da
impegni e scadenze di molti: ritirarsi, allontanarsi, scomparire, spegnere i rumori del
mondo. In questo caso l’isolamento può diventare una solitudine ricca di presenze,
l’espressione di un desiderio di lontananza che non si lascia catturare dalla girandola
del consumo compulsivo.
Diversamente, nel suo secondo volto l’isolamento appare come lo strazio di una vita
che ha perduto il suo aggancio col mondo e con gli altri. È l’isolamento come
esperienza di mortificazione, di emarginazione e di privazione. Non è più una scelta,
ma una condanna. Non è più un rifugio, ma una prigione. Non è più difesa
dall’imperativo alienante del divertissement, ma uno scacco che genera sconforto e un
profondo sentimento di abbandono. Questo secondo isolamento non nasce da un atto
di libertà, ma dalla violenza del mondo che esclude chi resta indietro. Non è
l’isolamento dell’esteta ma quello del reietto, dell’inadatto, dell’anormale che la
società marchia, stigmatizza ed esilia. È la cella del povero, dell’anziano dimenticato,
del malato, del migrante senza radici, del figlio che vorrebbe rinunciare alla propria
vita barricandosi tra le mura della propria stanza.
Qui non troviamo la libertà della separazione, ma una esperienza di esclusione che il
soggetto subisce. Non c’è contemplazione o creazione, ma disfacimento, rovina,
derelizione. Questo isolamento non è un’aspirazione ma una maledizione. Non
protegge dal caos frenetico della massificazione, ma espone la vita alla sua più radicale
insensatezza. È l’esperienza del deserto non come luogo di ascesi, ma come simbolo
di desolazione. Tuttavia, la distinzione tra questi due volti dell’isolamento non può
essere irrigidita. L’isolamento estetico può evaporare in una sorta di antisocialità
snobistica mentre l’isolamento subito come una ingiuria sociale può dare vita alla
potenza rivoltosa dell’indignazione e della critica attiva.
Gli stessi assembramenti estivi del popolo delle vacanze non neutralizzano affatto
l’isolamento come maledizione ma lo incentivano. È qualcosa che Adorno aveva
intravisto già a suo modo quando sosteneva che il colmo dell’isolamento non si realizza
affatto nella solitudine, ma nel trovarsi immersi nel flusso anonimo della massa, nel
diventare un numero tra gli altri sprovvisto di nome proprio. È l’isolamento che si può
provare tra la folla anonima delle metropoli, tra il brulichio dei non-luoghi. È
l’isolamento che si caratterizza come una vicinanza fisica senza alcuna reale
prossimità, come la moltiplicazione dei contatti senza alcun incontro reale, come
l’effetto degli assembramenti anonimi nei luoghi del turismo di massa. In questi casi si
tratta di un isolamento che non si genera per emarginazione, ma per un eccesso di
conformazione e di assimilazione. In questo senso l’aspirazione all’isolamento implica
sempre un passo laterale, un’uscita dalla serie, il guadagno difficile della propria
solitudine.
Non si tratta certo di negare il carattere vincolante del legame con gli altri, ma di
sottrarsi all’imperativo del divertimento obbligatorio, all’impostura della vita
spensierata contrabbandata dai social come la vita vera. Per questo persino la
maledizione dell’isolamento può apparire un’occasione superiore allo stordimento
inebriato del godimento che caratterizza l’essere acefalo della massa. Non si tratta di
rivendicare lo snobismo estetico di chi non vuole confondersi con gli altri, ma di
cogliere come la presenza effettiva in noi dell’altro non richieda affatto la celebrazione
della moltitudine. Non a caso, la solitudine ricercata dall’eremita non è finalizzata a
cancellare l’esistenza dell’Altro ma a sintonizzarsi più profondamente con essa.
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