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Sabino Chialà "Il fondamento della parresia"

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Una seconda considerazione riguarda il fondamento di una tale parresia o la via per cui è possibile ricercarla. Come tutti i carismi, in un’ottica cristiana, anche la parresia è dono di Dio ed è frutto di ascesi. Essa è dono dello Spirito poiché, come dicevo riferendomi al quarto vangelo, è il Paraclito che conduce sulla via della verità, in un progressivo svelamento delle cose dette da Gesù. Ma è anche frutto dell’impegno umano, che coopera con lo Spirito e acconsente al suo agire. 
Più concretamente, la parresia nelle relazioni interpersonali passa attraverso le altre due forme di parresia che abbiamo visto emergere nei testi biblici: la parresia con sé stessi e la parresia davanti a Dio. Alla prima diamo il nome di “libertà da sé” e alla seconda quello di “fiducia in Dio”. Detto altrimenti, quella verità vivente che siamo chiamati a esercitare nelle nostre relazioni ha due sostegni o fondamenti che la rendono possibile. 
Il primo è la qualità della relazione con sé stessi, che dev’essere di libertà. Il secondo è la relazione con Dio, in cui è necessaria la fiducia. 
Del primo tratto troviamo due esempi eminenti nel Battista e in Gesù. Ambedue sono rigorosi con sé stessi, nel senso che conoscono e aderiscono lealmente alla propria vocazione, senza usurpare né desiderare il posto e la missione altrui, come Giovanni che afferma con forza di non essere il Messia (cf. Gv 3,27-30), o come Gesù che accetta di portare a compimento la sua missione, pagandone il prezzo. Tale verità con sé stessi, che è una forma di libertà dalle false pretese cui gli esseri umani sono soggetti, rende audaci e capaci di una parresia autentica, che non degenera in spavalderia né in disprezzo, perché è pagata a caro prezzo. È infatti impossibile dire la verità all’altro se non si è interiormente liberi, se si hanno ancora cose da difendere o da nascondere. Ricordiamo la parola di Gesù: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Il rapporto vale nelle due direzioni: la verità rende liberi, ma è la libertà interiore che mette in condizioni di dire la verità. 
Ostacolo alla parresia è il fare riserve di sé e la paura di perdere ciò cui si è troppo attaccati. 
Quante volte parole necessarie non vengono proferite perché trattenute da un qualche pensiero che fa balenare il pericolo di perdere privilegi o semplicemente la stima di qualcuno, dei cui favori si sente di non poter fare a meno! In casi del genere il silenzio è colpevole, non può essere attribuito a discrezione, pudore o rispetto, ma a interesse personale, denotando solo mancanza di libertà da sé stessi. Solo chi non ha più niente da perdere, o chi è disposto a perdere ciò che non ritiene irrinunciabile, potrà esperire l’autentica parresia. E non si ha più niente da perdere quando si è già deposto tutto e si è consapevoli che l’essenziale non potrà essere sottratto da nessuno. 
Si tratta certo di un cammino arduo, che richiede tutta la vita, ma che è possibile. Ricordiamo le parole di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28). Se Gesù è stato capace di una vera parresia è perché aveva già deposto la propria vita e non aveva più nulla da perdere; non per disprezzo di quello che era, ma perché convinto che l’essenziale è inattaccabile dal vero male, essendo nelle mani del Padre. Per questo egli può dire: “Nessuno mi toglie la [vita] ma io la depongo da me stesso” (Gv 10,18). 
Primo presupposto, dunque, della parresia nei rapporti interpersonali è la libertà da sé che vince la paura, madre della menzogna. Quest’ultima infatti si nutre sempre di paure: mente chi ha paura di apparire per quello che è, mentre è libero da sé chi ha il coraggio di riconoscersi e di apparire senza vergogna e senza finzioni. 
Vi è poi un secondo presupposto alla parresia nelle relazioni interpersonali, che è anche necessario alla parresia con sé stessi appena evocata: si tratta della fiducia in Dio che, come dicevo, è un tratto tipicamente neotestamentario. Nel nt si parla a più riprese dello “stare con parresia” davanti a Dio, mettersi alla sua presenza con fiducia e senza timore, e pregarlo con fiducia (cf. 1Gv 5,14). 
Essa rende innanzitutto possibile la parresia con sé stessi. Se Dio infatti non accorda la sua fiducia, non è possibile essere senza paura. Senza il suo sguardo amorevole e il suo perdono non è possibile non solo guardare a lui, ma neppure a sé stessi. Senza Dio, ogni nostro peccato è un macigno che schiaccia. Dice in proposito Giovanni Crisostomo, commentando la Lettera agli Ebrei 10,19-25 e precisamente il passo in cui l’autore dice: “Fratelli, noi abbiamo la parresia…”: 

Da dove viene la parresia? Dalla remissione. Come infatti i peccati producono vergogna, così la loro completa remissione dà luogo alla parresia (1). 

La fiducia in Dio rende poi possibile rivolgersi all’altro con parresia, come mostra l’esperienza di Gesù, che ha potuto sostenere le contraddizioni provocate dalla sua franchezza perché consapevole della sua unione con il Padre. Ciò gli fu possibile grazie all’intima persuasione di potersi affidare a lui anche nei frangenti in cui più grande era la solitudine, come durante la passione. Per questo egli assaporò l’assoluta desolazione solo nel momento in cui, nell’ora cruciale della croce, non avvertì più la presenza del Padre (cf. Mt 27,46). 
La fiducia in Dio, cioè la consapevolezza che il Signore è presenza affidabile, dà forza nella prova e rende possibile la parresia nelle relazioni interpersonali non perché autorizza a credere che Dio sia dalla nostra parte, ma semplicemente perché sa che egli ama e perdona, che egli è presenza che accoglie. Inoltre, la consapevolezza di stare davanti a Dio con fiducia educa a una parola detta per il bene e senza malizia, come anche educa al silenzio quando è richiesto di tacere. 
Allora è possibile sperimentare quanto la Scrittura dice circa il suo essere dono di Dio e non conquista umana. Se è possibile esperire una qualche parresia con noi stessi, con gli altri e anche con Dio, ciò è solo perché il Signore l’ha guadagnata per noi, come dice la Lettera agli Ebrei. Noi possiamo stare con fiducia davanti a Dio perché abbiamo un sommo sacerdote che sa compatire le debolezze e ci rende capaci di accostarci al trono della grazia con parresia (cf. Eb 4,15-16). Per questo, dice ancora l’autore della lettera: “Fratelli, noi abbiamo la parresia (parrhesían) di entrare nel santuario, per mezzo del sangue di Gesù” (Eb 10,19). 
Di questo ci è fatto dono sino alla fine, fino al giorno del giudizio, come dice la Prima lettera di Giovanni: “Figlioli, rimanete in lui [il Figlio], perché possiamo avere parresia (parrhesían) quando egli si manifesterà e non veniamo da lui svergognati alla sua venuta” (1Gv 2,28). Nella fiducia nel giorno del giudizio si esprime anche la perfezione dell’amore: “In questo l’amore ha raggiunto tra noi la sua perfezione: che abbiamo parresia (parrhesían) nel giorno del giudizio” (1Gv 4,17). 
La parresia nelle relazioni interpersonali è dunque sostenuta dalle altre due: quella con sé stessi e quella davanti a Dio. Poiché, come si è visto, solo la libertà da sé stessi e la fiducia in un Dio che tutto custodisce nelle sue mani, sempre e ovunque, potrà rendere possibile una parresia autentica, capace di una parola di verità, vivente e buona.

Note: 

1) Giovanni Crisostomo, Omelie sull’Epistola agli ebrei 19,1, a cura di B. Borghini, Paoline, Alba 1965, p. 288.




AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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