Mauro Magatti "Il profondo disordine e la virtù che serve: la prudenza"
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Parola antica, spesso fraintesa, indica una dote molto diversa dalla cautela o dalla paura. Non consiste nel ritirarsi, ma nel saper agire tenendo conto della complessità.
Sono ormai diversi anni che il mondo vive in uno stato di profondo disordine. È come se il mondo fosse entrato in una fase entropica: l’ordine non si rigenera più spontaneamente, le connessioni si moltiplicano ma non producono coesione, e le società oscillano tra paura e smarrimento.
In questo clima, non sorprende che la sicurezza appaia come il valore assoluto del nostro tempo: sicurezza sanitaria, energetica, digitale, militare, finanziaria. Si moltiplicano le richieste di protezione, i dispositivi di sorveglianza, le recinzioni fisiche e simboliche. Ogni minaccia, reale o percepita, diventa un argomento per restringere spazi di libertà, giustificare il controllo, consolidare il potere.
La logica della sicurezza si fonda sulla paura dell’altro e sull’idea che il disordine possa essere neutralizzato solo erigendo barriere o rafforzando gli eserciti. Ma così facendo, ciò che si ottiene non è la pace, bensì una condizione di sospensione permanente: un equilibrio statico, difensivo, che congela la vita invece di permetterle di rigenerarsi.
La sicurezza, intesa come eliminazione del rischio, porta infatti con sé una rinuncia all’azione. Se ogni passo può essere pericoloso, la risposta più ovvia è non muoversi affatto. Ma una società che non agisce, che vive soltanto per proteggersi, è destinata a implodere. L’azione, come ricordava Hannah Arendt, è la dimensione costitutiva dell’umano: essa apre il mondo, lo rinnova, lo fa esistere nel tempo.
Quando l’azione viene sostituita dalla mera reazione, la storia si ferma e subentra la paralisi. Ecco perché la ricerca ossessiva di sicurezza, per quanto comprensibile, finisce per alimentare proprio quel disordine da cui vorrebbe difendere: perché immobilizza le energie vitali, spegne il desiderio, cancella la fiducia.
In realtà, ciò di cui avremmo davvero bisogno è la prudenza — una parola antica, spesso fraintesa, che indica una virtù molto diversa dalla cautela o dalla paura. La prudenza (dal latino prudentia, derivato di providere, cioè “vedere prima”) non consiste nel ritirarsi, ma nel saper agire tenendo conto della complessità. È la capacità di discernere, di valutare le conseguenze, di pesare i diversi fattori in gioco senza ridurli a uno solo.
Aristotele la considerava la virtù pratica per eccellenza, quella che permette di tradurre i principi etici nell’azione concreta, in situazioni incerte e mutevoli. La prudenza, dunque, è un sapere dell’agire, un’intelligenza incarnata, che riconosce i limiti e le possibilità del reale.
A differenza della sicurezza, che cerca di abolire il rischio, la prudenza lo assume consapevolmente. Essa non nega l’incertezza del mondo, ma impara a navigarla. È la virtù di chi non si lascia paralizzare dalla paura, ma neppure si illude di poter dominare tutto con la tecnica o la forza.
La prudenza non è la virtù del forte, ma del sapiente: di chi comprende che la vita è fragile e proprio per questo va custodita, non chiusa. Significa muoversi nel mondo con attenzione, ma anche con fiducia; riconoscere i pericoli, ma non rinunciare al futuro.
Oggi, in un’epoca dominata da algoritmi che calcolano ogni probabilità e da poteri che promettono protezione totale, riscoprire la prudenza è un atto politico e spirituale insieme. È riconoscere che il futuro non si costruisce evitando gli urti, ma affrontandoli con discernimento. L’idea di sicurezza tende a fissare il presente; la prudenza, al contrario, apre la via a un futuro che ancora non esiste.
Chi è prudente non si limita a reagire: immagina, prevede, orienta. È capace di decisioni che non si basano solo sul calcolo, ma anche sulla misura, sull’equilibrio, sul rispetto della complessità vivente. In questo senso, la prudenza è la virtù della generatività: di chi sa che ogni scelta comporta un rischio, ma anche la possibilità di dare vita al nuovo.
Una società prudente non è una società chiusa in se stessa, bensì una società che impara a prendersi cura del proprio cammino, a pensare le conseguenze delle proprie azioni, a intrecciare la libertà con la responsabilità. Dove la sicurezza immobilizza, la prudenza mette in moto; dove la sicurezza chiude, la prudenza apre. La storia ci mostra che i momenti di grande trasformazione — come quello che stiamo vivendo — richiedono proprio questa virtù.
Nel disordine globale non servono nuovi muri ne la corsa agli armamenti ma nuove forme di discernimento: la capacità di riconoscere ciò che vale, di distinguere l’essenziale dal superfluo, di comporre differenze invece di cancellarle. Prudenza significa, in fondo, fare spazio all’intelligenza del limite, contro l’illusione di onnipotenza.
È la virtù che permette di abitare il mondo senza distruggerlo, di agire senza devastare, di scegliere senza temere. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una prudenza capace di diventare cultura collettiva. Nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nella vita quotidiana. Una prudenza che non sia solo individuale, ma civile, condivisa: che aiuti a tenere insieme libertà e responsabilità, innovazione e custodia, sicurezza e apertura. Solo così potremo uscire dal disordine non rifugiandoci nel controllo, ma ritrovando il senso dell’azione umana.