Massimo Recalcati "Quel gioco perverso che fa della donna una merce da esibire"
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24 Agosto 2025
Il gruppo “Mia moglie” nasconde una mentalità antica. È il maschilismo più feroce, declinato al tempo dei social.
Un dispositivo che sembra nuovo, figlio dell’epoca dei social network e della loro logica esibizionista, ma che, in realtà, ha radici antiche: si compila una lista, un catalogo di donne, le “proprie”, per ridurle a corpi da valutare, commentare, mettere in classifica da parte di un gruppo esteso di uomini. Lista clandestina che raduna uno spogliatoio virtuale di maschi che nel turpiloquio e nell’insulto, nell’apprezzamento pesante e nelle fantasie porno estreme, realizzano, in una complicità gruppale innocentemente feroce, la degradazione maschilista del soggetto femminile a un oggetto di consumo.
Il fatto che tutto ciò sia avvenuto rubando le immagini della propria donna per darle in pasto ad altri
maschi non solo ribadisce una concezione padronale del rapporto, ma realizza altresì una fantasia
perversa. Quale? In gioco non è tanto il desiderio erotico nelle sue trame labirintiche, ma una sorta
di scambismo virtuale. Lo scambismo non viene effettivamente praticato, non diviene una pratica
sessuale, ma si mantiene sul piano del puro voyeurismo. Questo tipo di scambismo non ha bisogno
di professioniste del sesso, ma recluta, in un abuso selvaggio della privacy, la compagna, la moglie,
la fidanzata, l’amante. Lacan ci ha insegnato che il voyeurismo non è semplicemente «guardare
senza essere visti». Il voyeur, infatti, non è affatto padrone dello sguardo ma ne è piuttosto
posseduto. Fotografando, filmando, spiando, egli cerca di trasformare la donna in un oggetto
catturato una volta per tutte. In questo modo prova a sostituire l’angoscia provocata dallo sguardo
imprevedibile dell’Altro con la rassicurante fissità di un’immagine. Ma quello che possiede non è
mai la donna, ma solo il catalogo senza vita delle sue rappresentazioni. Da un lato, mette in lista la
propria compagna per ricevere dagli altri la conferma del suo valore («guarda cosa ho!»); dall’altro,
si illude di possederne l’essenza più segreta, di averla finalmente sotto controllo.
A che fine? Mi limito a isolare tre punti.
Il primo consiste nel ribadire l’assioma maschilista per
eccellenza: «Sono tutte puttane!». In ogni donna vi sarebbe una femmina ammalata di sesso, una
Eva insaziabile pronta a soddisfare gli appetiti più smodati degli uomini. Qui la mitologia
maschilista svela le sue radici più ideologiche: di fronte all’inafferrabilità del godimento femminile,
alla libertà irriducibile della donna, si prova ad operare una riduzione violenta della donna stessa ad
una bambola del sesso sempre disponibile.
Il secondo punto riguarda invece la logica del voyeur. Egli, come la psicoanalisi insegna, non
guarda tanto l’Altro, ma guarda se stesso nell’atto di catturare quello che non può catturare: il
mistero del desiderio dell’Altro, il suo sguardo. È come se l’esperienza autentica dell’incontro fosse
troppo fuggevole, rischiosa, indeterminata.
Allora si preferisce venirne a capo filtrandola attraverso
una lente che offre l’illusione di metterla in pausa, riavvolgerla, possederla. Incitare al commento
osceno, scurrile, alla manifestazione priva di ogni pudore delle proprie fantasie, significa scambiare
solo virtualmente la propria donna preservando però un potere di governo sul suo corpo.
Nondimeno, diversamente dalla prostituzione tipo Onlyfans, qui l’oggetto sessuale deve avere un
nome, una storia, un legame con chi la espone. Ed è proprio questa contaminazione tra la realtà e la
finzione a produrre un godimento perverso. Mentre il triste Casanova di Fellini si trovava al termine
della sua vita tra le mani solamente una bambola meccanica — simulacro della morte che
fatalmente lo attendeva per ricordagli che nemmeno il sesso compulsivo poteva essere una via di
fuga dalla sua inesorabile presa — in questo caso si tratta di nutrire l’illusione di avere a
disposizione una bambola non meccanica ma viva e reale.
L’uomo che getta le immagini rubate
della propria compagna in pasto al branco non è più un amante, ma un manager della propria vita
affettiva costantemente ansioso di ricevere un feedback dal suo pubblico. In questo modo è
diventato schiavo di quello sguardo che credeva di dominare. Non è più in grado di desiderare ma
solo di organizzare un godimento omogeno, tra simili. In questo senso, al di là delle apparenze, il
godimento di ogni voyeur resta solipsistico, uomo-sessuale, tale, cioè, da escludere l’incontro reale con una donna.
Infine, il terzo motivo che può giustificare questo dispositivo osceno concerne il tentativo disperato
di rianimare il desiderio. Se la vita di coppia porta con sé, nella sua ripetizione abitudinaria, il
rischio di una flessione o di una estinzione del desiderio, la convocazione sulla scena di un altro
sguardo può offrire l’illusione di una sua riattivazione. È un gioco di specchi: il vero oggetto del
desiderio non è più la “propria” donna, ma il desiderio dell’altro che deve qualificare il suo corpo
come ancora desiderabile. È una formula di Lacan: il desiderio umano è desiderio dell’oggetto solo
in quanto desiderato da un altro desiderio. In altre parole: se tu desideri quello che io possiedo,
quello che possiedo riacquista valore.
La donna-bambola diventa così la merce suprema, il biglietto da visita per entrare in una fratellanza
patologica di sguardi maschili, un club esclusivo in cui ci si riconosce e ci si valuta per il valore
della merce che si è in grado di esibire e, almeno virtualmente, di mettere in circolazione. È la
logica del capitale applicata: il valore di un bene — il corpo-oggetto della propria partner — è
determinato dalla domanda che riesce a generare. Si tratta di un meccanismo perverso per provare
ad accendere un desiderio assopito, morto, sfiancato dall’abitudine. Ma preferire il catalogo
illimitato delle immagini all’enigma singolare, l’archivio all’avventura, la sicurezza claustrofobica
della prigione voyeuristica al cielo aperto e pericoloso del desiderio condiviso è una strada senza
vie di uscita.
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