Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: Fronteggiare il male, avere compassione
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Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024
L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose
Sommario
5. Fronteggiare il male, avere compassione
6. L’umanodivino di Gesù (senza trattino)
7. Il “capolavoro” della crocifissione
8. Tutto è perdonabile
9. Quando l’amore è più forte della morte
10. Il silenzio e il mistero
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana
La sovversione e il paradosso
Luciano Manicardi. I vangeli ci presentano una grande attività taumaturgica. Anche se la figura di Gesù terapeuta mi convince fino a un certo punto. Il breve vangelo di Marco documenta una grande quantità di interventi di guarigione. Questo aspetto rivela la novità dell’umanità di Gesù, che si è formata ed è divenuta quello che noi conosciamo proprio grazie all’incontro con la debolezza umana, la fragilità, l’infermità, le malattie del corpo e della mente, le patologie psichiche: su tutti l’episodio dell’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-20). Oggi definiremmo ciò che affligge quest'uomo un “grave disturbo della personalità”: autolesionista e schizofrenico. L’incontro con un malato, e un malato psichico ancor di più, lascia profonde tracce. Io sono convinto che Gesù abbia appreso la lezione della compassione frequentando i malati, i quali per altro erano attratti da lui, dalla sua umanità calda e ospitale. Gesù non si è mai presentato come una figura ieratica, distaccata, indifferente, ma mostrava un’umanità avvicinabile, a cui ci si poteva affidare. Anche questo era, probabilmente, un altro motivo di fastidio per la casta sacerdotale dei sadducei.
E poi Gesù fronteggia il male: oltre le guarigioni anche gli esorcisismi.
Gesù incontra il male del mondo, non il mondo del male. Gesù non si occupa per niente del demoniaco in sé ma solo e soltanto del male che stravolge il volto, il corpo, le relazioni di una persona, e cerca sempre di restituire il singolo soggetto alla propria individualità, alla propria integrità, alla propria dignità. All’epoca, gli esorcismi erano diffusissimi, tanto nel mondo giudaico quanto in quello ellenistico, e, indubbiamente, nei vangeli troviamo delle guarigioni di Gesù che possiamo definire esorcismi, perché dal corpo del posseduto esce il demone, lo spirito impuro. Ma se riprendiamo l’episodio dell’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-20) – descritto nel vangelo come nudo e forzuto mentre corre gridando contro Gesù – noi possiamo notare la finezza narrativa di Marco: “Che vuoi da me?”, dice l’indemoniato.
Questi non vuole avere niente a che fare con Gesù Nazareno perché sa benissimo chi è: il “Figlio di Dio altissimo”. L’atteggiamento diabolico si rivela in questo: io so chi tu sei, ma non voglio avere nulla a che fare con te. E cosa fa Gesù? Rimane e ascolta la sofferenza non elaborata di quell’uomo che si esprime sotto forma di aggressività.
Gesù ascolta il dolore che si trasforma in violenza contro di sé (autolesionismo) e aggressività contro altri. Marco mette in bocca all’indemoniato le seguenti parole: “Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!” (ὁρκίζω σε τὸν θεόν, μή με βασανίσῃς). La finezza è questa: le parole dell’indemoniato sono le stesse che un esorcista dovrebbe rivolgere al posseduto, cioè che Gesù doveva rivolgere al geraseno. Qui accade l’opposto: è l’indemoniato a rivolgersi a Gesù con parole di esorcista. Nel nostro episodio viene anche derubricata la tecnica classica dell’esorcismo, perché Gesù non guarisce in nome di tecniche o formulari stabiliti, ma attraverso un’altra potenza.
Matteo dirà che Gesù “scacciava i demoni con la sua parola” (Mt 8,16), laddove “parola” sta per “persona”. Il cardinale Martini, a un convegno internazionale di psichiatri a Milano, tenne un coraggioso discorso di apertura facendo la lectio divina proprio del vangelo riguardante l’indemoniato di Gerasa. Riprendendo il linguaggio psicanalitico di Michael Balint, Martini parla di Gesù che presenta se stesso come farmaco [44] mostrando come la cura messa in atto dal taumaturgo Gesù sia una sorta di dialogo terapeutico che cerca di restituire l’altro al suo nome e alla sua dignità. Quindi, sì, direi che i vangeli attestano una familiarità di Gesù con le ombre dell’anima, con l’umano offuscato dalla malattia, dalla disabilità, dalla cecità, dalla paralisi. Impressiona questo suo inoltrarsi nei territori in cui l’umano è ferito, ma la verità dell’umano è anche lì e Gesù sembra volerla “toccare”. Gesù tocca le ferite dell’umano. Quando noi stiamo bene, abbiamo potere e successo, ci illudiamo e viviamo di maschere, sia in ambito religioso che sociale. Le zone d’ombra sono una scuola di verità e questo fa capire molto dell’umanità di Gesù, che ha davvero voluto imparare innanzitutto da quel che ha sofferto lui in prima persona e, poi, da quello che hanno sofferto gli altri. La sofferenza altrui gli ha insegnato la compassione.
Come definire la compassione nell’umanità di Gesù?
Non è semplicemente l’emozione dei neuroni specchio per cui rispecchio l’emozione dell’altro: soffre lui, soffro anch’io; piange lui, piango anch’io. No. Compassione è sentire l’altro nella sua unicità: sei prezioso perché sei unico e sei precario perché sei unico. Precarietà e preziosità vanno insieme ed è lì che nasce la compassione: sentire l’assoluta preziosità e precarietà dell’altro. Non è solo intelligenza sentimentale, speculazione emotiva, ma anche o soprattutto qualità etica. Un po’ come il samaritano della parabola lucana che vede un uomo ferito e prova compassione (Lc 10,25-37).
La compassione nell’Antico Testamento è un attributo di Dio e nel Nuovo Testamento viene attribuita anche a Gesù. Quindi nell’essere compassionevole Gesù vive qualche cosa di divino. La compassione non è solo una qualità comprensibile sul piano sentimentale, non è solo un’emozione, è un sentimento molto intelligente dotato di capacità cognitiva.
Rileggiamo la parabola lucana. Innanzitutto, la compassione esprime un giudizio di gravità oggettiva: qualche cosa di pesante ha colpito l’uomo lasciato mezzo morto per strada senza che lui ne avesse alcuna colpa.
Inoltre, c’è un giudizio di rispecchiamento e immedesimazione: bastava passare cinque minuti prima e potevo essere io l’aggredito, quello che è successo a lui poteva accadere a me.
C’è poi un giudizio di innocenza: quell’uomo non ha alcuna colpa per ciò che gli è successo.
E, da ultimo, un giudizio eudaimonistico: sto facendo il mio viaggio come il levita e il sacerdote della parabola, ho i miei impegni sacrosanti da adempiere, ma, vedendo quell’uomo ferito e moribondo, rivedo la scala dei valori e delle priorità. E qui subentra un elemento che interpella la mia dignità umana, invitandomi a fare tutto quello che è in mio potere per curare il ferito: olio, cavalcatura, albergo, denaro…
Ecco, in questa parabola torna la familiarità di Gesù con il dolore umano e con le ombre dell’anima, con l’aspetto più enigmatico dell’umano. La compassione non è voler bene a chi mi vuol bene, a chi è buono e bravo, ma entrare in relazione addirittura con chi mi è nemico. E, a volte, il nemico non è il lontano, è il vicino, l’amico. Non è così indifferente amare il nemico e amare il prossimo. Amare i poveri dell’Africa è relativamente facile, ma il mio vicino…
Qui il discorso sui sensi di Gesù si rivela affascinante. Il binomio sensi e compassione è vitale.
Sì, toccare e farsi toccare, per esempio, hanno un’importanza enorme nei vangeli. Innanzitutto, toccare e poi anche farsi toccare. Il tatto è l’unico fra i sensi che prevede la reciprocità, non così lo sguardo (io posso vedere senza essere visto). La pelle è l’organo di senso più diffuso su tutto il corpo. In Gesù c’è anche una pratica dei sensi che mi porta al “Senso”. Origene distingueva i sensi materiali e spirituali.
Io credo che si tratti di cogliere lo spirituale nel materiale. I sensi hanno la funzione spiritualissima di aprirmi all’alterità. Attraverso i cinque sensi – vista, udito, tatto, gusto, olfatto – io entro in contatto con il mondo e il mondo fa esperienza di me. Io faccio esperienza degli altri e del mondo, il mondo e gli altri fanno esperienza di me.
Gesù insegna l’unità dell’antropologia biblica che non scinde i sensi, l’interiorità e l’esteriorità, il materiale e lo spirituale, ma li tiene uniti.
In questa unità consiste la pienezza della vita e la vita piena è al cuore del messaggio di Gesù.
Scrive Bobin: “Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza. Trenta di larghezza. Si direbbe che il riposo gli è vietato. […] Va dritto alla porta dell’umano” [45]. Gesù è come l’homme qui marche di Auguste Rodin (1905) e Alberto Giacometti (1960) o l’homo viator di Gabriel Marcel. Sembra un umano sempre in esodo.
Aggiungiamo pure Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) che mette in scena, nel camminare di Gesù, una fretta e un’inquietudine escatologica. Camminare è il modo in cui originariamente l’uomo prende possesso del mondo: pensiamo al genitore che fa fare i primi passi al bambino. È rivelazione, meraviglia e dono. Noi cominciamo ad abitare il mondo camminando, passo dopo passo. Gesù ci insegna a camminare e a cercare: “Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10).
L’orante, colui che prega, è sempre anche colui che chiede, bussa, cerca.
Stai dicendo che l’uomo che cammina è, proprio per il suo incedere nel mondo, già da subito l’essere orante?
Mi chiedo se colui che chiede, bussa e cerca, se colui che cammina non sia forse Dio stesso. Non è forse Dio che si rivolge all’uomo chiedendogli: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). Non è forse Lui che “sta alla porta e bussa” affinché gli si apra (Ap 3,20)? Non è forse Lui che va in cerca dell’uomo? Qual è il risultato della preghiera, cioè del chiedere, cercare, bussare? Essere là dove è anche Dio, “alla ricerca dell’uomo” [46]. E cosa trovo, cosa raggiungo? Non qualche cosa. Gregorio di Narek in una splendida meditazione diceva: “Non è dei doni, ma del Donatore, che ho sempre la nostalgia” [47]. Allora, cercando, bussando, chiedendo, mendicando, facendomi pellegrino, io sono là dov’è Dio stesso, il Dio che si è messo a seguire Israele quando è uscito dall'esilio.
Gesù con il suo camminare, con il suo avvicinarsi alle persone, con il suo interrogare, con i suoi sensi, ci narra chi è Dio all’interno di un percorso che è assolutamente umano, in cui i suoi sensi sono completamente coinvolti.
NOTE
44 Cfr. Carlo Maria Martini al convegno internazionale «La cittadinanza terapeutica. Confronto sulle buone pratiche della salute mentale», Milano 15-17 aprile 2002.
45 Christian Bobin, L’uomo che cammina, ed. Qiqajon, Bose 1998.
46 Abraham Joshua Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, ed. Borla 1983.
47 Gregorio di Narek, Dodicesima preghiera I; in Grégoire de Narek, Le livre des prières, Introduction, traduction de l’arménien et notes per Isaac Kéchichian (Sources Chrétiennes 78), Cerf, Paris 1961, 102.