La luce delle stelle morte: il lutto e la nostalgia secondo Massimo Recalcati
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La Stampa, 11 gennaio 2023
Cosa succede quando perdiamo qualcuno che abbiamo amato? Come possiamo continuare a vivere senza
disperazione? L’esperienza della perdita è parte della condizione umana condivisa. Non è possibile non
sperimentare la morte, la scomparsa di chi dà senso alla vita, l’abbandono di un amore ma anche di una
terra o di un ideale. La vita scorre attraverso continue piccole morti ma è grazie a loro che possiamo
continuare a rinascere. Ce lo insegnano i corpi celesti che anche quando scompaiono non spariscono ma
continuano a vivere emanando tracce della loro presenza. È questo il tema del nuovo libro di Massimo Recalcati La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Feltrinelli.
Cosa avviene dentro di noi quando perdiamo qualcuno?
«Si apre un vuoto. Un doppio vuoto: uno dentro di noi e uno nel mondo. Chi amavamo, chi dava senso al
mondo non esiste più e, di conseguenza, nemmeno il mondo che la sua presenza sosteneva. Al tempo
stesso io mi perdo insieme a chi perdo. La mia vita si svuota, perde senso, cade in una buca… Il mondo che
conoscevo prima della perdita non è più lo stesso di quello che vedo ora. Non trovo più il mio posto. Non lo
trovo più perché il mio posto era l’altro che amavo e che ora non è più con me. Per questa ragione la fine di
un amore assomiglia profondamente ad un lutto».
Chi muore quando si muore?
«Io non posso fare esperienza della mia morte. Non la posso vivere perché non la posso raccontare. Morire
significa diventare polvere. Ma io non posso fare da vivo questa esperienza. È una evidenza. Morire
significa, diceva Sartre, cadere nelle mani degli Altri. Non ho più diritto di replica. Sono gli altri a dire chi
sono stato, a parlare di me. Io posso conoscere il trauma della morte solo attraverso la morte di chi amo, di
chi entra nel regno dei morti e lascia la mia vita nell’abbandono».
Quali risorse abbiamo per continuare a vivere?
«Chi se ne va non se ne va mai via del tutto. Lascia delle tracce. Queste tracce possono essere dei pesi.
Quando, per esempio, la mia vita, come accade nella melanconia clinica, non può più vivere perché ha
perduto il suo senso. Tutto è già accaduto, tutto è già finito. La mia vita assomiglia ad una stazione dove
non passano più treni… Ma queste tracce possono anche assomigliare a delle luci. Chi se ne è andato resta,
come accade nel fenomeno astrofisico delle stelle morte, ancora con me. La luce che vediamo nel cielo
proviene infatti da corpi celesti morti milioni di anni fa… eppure resta con noi, continua ad illuminare la la
nostra vita».
Qual è il modo migliore per attraversare il dolore?
«Si chiama lavoro del lutto. È un lavoro che non può essere indolore e che non può essere rapido. Implica la
memoria dolorosa di chi non è più con noi ma al suo termine comporta l’incorporazione di chi ci ha lasciato.
La vita di non c’è più non schiaccia più la nostra vita, ma la alimenta. Nietzsche propone l’immagine della
primavera che scioglie il ghiaccio dell’inverno…».
Il libro sviluppa il tema della nostalgia come rimpianto e gratitudine. Può spiegare i due volti della
nostalgia?
«La nostalgia-rimpianto è quella che ci sospinge verso il passato perduto. Vorremmo avere quello che non
abbiamo più: la nostra giovinezza, la nostra terra, la nostra forza, il nostro primo amore, ecc. Spesso questa
nostalgia comporta l’idealizzazione del passato e blocca la vita, la sequestra in un sentimento sterile di
rammarico. La nostalgia-gratitudine invece è una benedizione. Stabilisce un rapporto diverso col passato. È
una forma radicale di eredità. Sono grato a tutti i miei innumerevoli morti, a tutto ciò che è stato e non è
più, sono grato al bene e al male che ho vissuto, non rimpiango nulla ma ringrazio perché porto con me la
luce delle stelle morte».
E la melanconia?
«È un fallimento del lavoro del lutto. La vita resta prigioniera della morte. Ha già vissuto. È già morta. Il
soggetto melanconico vive senza avvenire perché la sua vita è stata trascinata dalla morte da chi è morto.
Non a caso, dal punto di vista clinico, la sensazione di essere già morto può accompagnare il soggetto
melanconico».
È vero, come si dice che il tempo guarisce il dolore?
«Non esiste appunto lutto rapido. È una delle menzogne più grandi del nostro tempo: morto un papa se ne
fa un altro. Invece il trauma della perdita esige un lavoro necessariamente lungo. Ci vuole tempo affinché la
vita torni a vivere, affinché il gelo dell’inverno si possa sciogliere».
Che rapporto ha con Torino?
«Adoro la sua compostezza, la sua eleganza sobria, il rigore e la bellezza, le geometrie, l’ordine. Anche un
senso diffuso del segreto, dell’appartarsi, del chiuso».