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Gianfranco Ravasi “La Bibbia? Una biblioteca di 73 libri”

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La Bibbia? Una biblioteca di 73 libri
8 gennaio 2023 

Sacre Scritture. Il codice della cultura occidentale fu redatto in epoche diverse e da più mani E persino Dio entrò in scena come scrittore 

Era il 18 febbraio 1990 quando mi affacciai per la prima volta su queste pagine recensendo il saggio Gesù e le donne di Marco Garzonio, appena edito da Rizzoli. Il titolo assegnato a quel mio primo intervento era emblematico: «In casa con Marta e Maria» e a sollecitare la mia presenza era stato Armando Torno che allora dirigeva il «Domenicale» e che ancor oggi ci accompagna in ogni numero con un suo delizioso colonnino. Tante figure importanti della cultura italiana si sono succedute precedendomi o seguendomi: tra queste citerò soltanto una sorta di “patriarca” e maestro straordinario che ancora ci accompagna coi suoi articoli, Carlo Carena. 

Questa divagazione autobiografica all’inizio del nuovo anno vuole allargarsi in una libera celebrazione del testo che più ho studiato e che ha dominato spesso le mie recensioni, ossia la Bibbia. Si tratta di un curioso termine singolare che nasce da un plurale greco, Biblia, perché essa è una biblioteca di 73 libri di diversa cronologia, affidata a molteplici mani autoriali e redazionali e a differente estensione quantitativa. Si va da un Geremia, che si regge su 21.819 parole ebraiche, al fascicolo di un altro profeta, Abdia, fatto di soli 291 vocaboli, così come Luca totalizza nel suo Vangelo 19.404 parole, mentre la Terza Lettera di Giovanni si accontenta di 219 e così via, con san Paolo che costruisce l’architettura del suo capolavoro, la Lettera ai Romani, con 7.094 vocaboli greci, mentre il suo biglietto a Filemone ne elenca solo 335. 

È suggestivo notare che Dio stesso nella Bibbia entra in scena come scrittore: «Il Signore dette a Mosè le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio… Egli vi dette le dieci parole [il Decalogo] e le scrisse su due tavole di pietra… Me le dette dopo averle scritte su due tavole di pietra…», e si continua così in diversi passi dell’Esodo e del Deuteronomio a menzionare questa attività di Dio come scrittore «col dito» su lapidi consegnate a Mosè. Costui, a sua volta, si rivela scrittore: «Mosè scrisse tutte le parole del Signore… Scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole… Mosè scrisse questa legge e la diede ai sacerdoti figli di Levi…». 

Non per nulla si usa il lemma «libro della Legge» e il verbo ebraico ktb, «scrivere», ricorre nell’Antico Testamento 204 volte con uno sciame di derivati, mentre l’equivalente greco neotestamentario graphein risuona 191 volte e il sostantivo graphé 50 volte. Anzi, la metafora della scrittura divina raggiunge la sua pienezza quando unisce Autore e Lettore, in un passo celebre di Geremia: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (31,33). Nasce, così, la concezione performativa e non meramente informativa della Scrittura Sacra, che tra l’altro nel mondo giudaico è detta Miqra’, «Lettura» (la stessa radice è alla base di Corano). 

In questa linea si colloca il tema della comestione simbolica del Libro sacro come ricorda Ezechiele, invitato da Dio a «mangiare il rotolo» profetico: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,1-3). È la stessa esperienza a cui è spinto il Veggente dell’Apocalisse: «Presi quel piccolo libro dalle mani dell’angelo e lo divorai: in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (10,8-10). 

Questa comunicazione-comunione che si ha con la parola sacra è stata illustrata in modo emozionante dal famoso teologo tedesco di origine italiana Romano Guardini nel suo Elogio del libro (1951; Morcelliana 1985) quando descrive l’episodio bellico tragico di un plotone di soldati bloccati in una sacca, accerchiati dai nemici e votati alla morte. «Il cappellano militare, sentendo che non aveva più nulla di accettabile da dire in quell’ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una ad ogni soldato». Era una sorta di viatico «sacramentale» per l’ingresso nell’oltrevita, come si suole fare con l’eucaristia. 

Questo necessario ed efficace intreccio tra Autore e Lettore vale ovviamente per tutte le grandi opere, come suggestivamente osservava Paul Ricoeur nel suo Conflitto delle interpretazioni (1969, Jaca Book 1977): «Il testo orfano del padre, l’autore, diventa il figlio adottivo della comunità dei lettori». E qui si apre il grande e complesso capitolo dell’ermeneutica biblica che cerca di evitare al lettore di incagliarsi nei due estremi, la Scilla del letteralismo fondamentalista e la Cariddi dell’allegoria sfrenata. Entrambe offuscano il testo, anzi, in molti casi si rivelano parassitarie. Per questo l’operazione interpretativa è delicata e deve procedere su un crinale tagliente ed è a questo percorso che conducono tanti saggi di esegesi o di teologia biblica che abbiamo presentato in queste pagine, nella consapevolezza di quanto affermava il teologo Jean Leclercq nel suo L’amour des lettres et le désir de Dieu (1957): «Escatologia e grammatica sono intimamente connesse l’una con l’altra». 

Essendo stata la Bibbia «il grande codice della cultura occidentale», come si è soliti dire sulla scia di William Blake e di Northrop Frye, la nostra insistenza sulla conoscenza delle Scritture non è tanto apologetica ma soprattutto culturale perché - e lo diceva nientemeno che Nietzsche - «tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca e quella dei Salmi, c’è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria».

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