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Vito Mancuso "Quella messa recitata in latino e il bivio dell'identità cristiana"

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Visto che ieri il funerale di Joseph Ratzinger in piazza San Pietro è stato celebrato in latino, forse vale la pena partire da qui. I romani avevano tre termini per indicare l'ultima cerimonia riservata all'esistenza di un essere umano: "funus, exsequiae, pompa". Funus, che al genitivo fa "funeris" e da cui deriva "funerale" (nonché gli aggettivi "funebre" e "funesto"), è propriamente la cerimonia della sepoltura. Invece "exsequiae", da cui "esequie", e "pompa", da cui "pompe funebri", indicano il corteo, l'accompagnamento, la processione, insomma tutto l'accorrere degli umani per mostrare e dimostrare ai parenti e alla società la propria partecipazione al dolore per la scomparsa del defunto. 
Credo si possa senz'altro dire che il funerale di ieri a Roma sia stato celebrato in "pompa magna", prova ne sia che la nostra lingua in casi come questo sente l'esigenza di parlarne al plurale: non più solo il funerale, ma "i funerali", come ieri i siti dei maggiori giornali titolavano a sottolineare l'importanza dell'evento tramite la promozione grammaticale dal singolare al plurale. 

Io penso che la nostra umanizzazione sia avvenuta quando i nostri progenitori iniziarono a prendersi cura dei corpi senza vita dei loro cari. Penso che il passaggio dalla semplice vita animale a quella complicata dimensione del vivere che chiamiamo "umanità" sia avvenuta a partire dal culto dei morti. Non esiste civiltà che ne sia priva, per quanto le forme siano diverse. I monoteismi (ebraismo, cristianesimo, islam) praticano l'inumazione, mentre le religioni orientali preferiscono la cremazione, come avveniva per lo più anche nel mondo classico. La religione di Zarathustra conosce le cosiddette torri del silenzio, impalcature di una decina di metri alla cui sommità vengono esposti i cadaveri per far sì che se ne cibino gli avvoltoi e gli altri rapaci, come a voler restituire alla natura il cibo che da essa si è tratto cibandosi durante l'esistenza di carne animale. Oggi da noi è decisamente in aumento la pratica della cremazione, fino al Vaticano II (1962-1965) condannata dalla Chiesa cattolica e ancora oggi proibita dalle Chiese ortodosse e dai fondamentalisti protestanti, oltre che dall'ebraismo e dall'islam, ma che sembra stia superando la più tradizionale inumazione. A proposito di inumazione, vi sono anche coloro che desiderano prenderla più sul serio e per questo decidono di praticarla in senso letterale, cioè secondo l'etimologia del termine formato da "in" e da "humus" (terra), per cui danno disposizione di venire sepolti proprio nella nuda terra, senza nessuna bara, al massimo con un lenzuolo, per essere veramente uniti alla terra e alla fine tornare a essere solo terra. Forse lo sanno, forse no, ma così mettono veramente in pratica le antiche parole bibliche: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai». 

Ieri invece Joseph Ratzinger è stato sepolto secondo tradizione con una bara di legno nelle grotte vaticane, e non poteva ovviamente che essere così. La sua sepoltura ha costituito un rito cui ha partecipato il mondo, in particolare quella parte di mondo che si chiama Occidente. Ogni rito ha una notevole funzione unificante, ma io penso che il funerale, e più in particolare "i funerali" di un Papa, ne abbiano a maggior ragione. Si tratta infatti di una cerimonia religiosa che riguarda un capo religioso, e la religione (come indica lo stesso termine il cui significato etimologico più profondo rimanda a "legame") è una potentissima forza unificatrice. Da noi essa lo è stata per molti secoli, in altre parti del mondo lo è ancora, e il sogno di Joseph Ratzinger, e prima ancora di Karol Wojtyla, nonché di molti politici che ieri erano presenti in piazza San Pietro, è che torni a esserlo ancora. Che le radici cristiane dell'Europa tornino a essere coltivate così da ridare vigore all'albero un po' appassito dell'Occidente: su questo Ratzinger continuava a insistere con quella sua gentilezza unita a caparbietà. 

Quello che è sicuro, a mio avviso, è che noi abbiamo urgentemente bisogno di riti unificanti. Lo si percepisce dal senso di sfaldamento del tessuto sociale che pervade le nostre coscienze e che ci ha ridotti a essere quasi del tutto privi di riti comuni: e senza riti comuni, una società si ammala e poi muore, cessa di essere "societas" cioè insieme di soci e decade in un'amorfa massa di estranei, guardinghi gli uni verso gli altri, fino a precipitare nello stato di "guerra di tutti contro tutti" ("bellum omnium contra omnes") che talora già si percepisce con un brivido in alcune zone delle nostre città. 

Dopo che Romolo ebbe fondato Roma, Numa Pompilio, secondo re della città, capì di doverle dare una religione e i suoi riti, avendo intuito che Roma sarebbe diventata grande solo se avesse avuto un credo e un rito comune. E Roma li ebbe e lo divenne. Dall'altra parte del mondo Confucio assegnava ai riti la medesima decisiva valenza sociopolitica e il Celeste Impero cinese appoggiandosi sulla sua filosofia durò per oltre due millenni. In particolare riguardo all'ultima cerimonia Confucio affermava: «Se i riti funebri sono celebrati con coscienziosità e gli antenati degnamente commemorati, la virtù del popolo tornerà genuina e profonda». 

Ma la questione è: potrà essere il cristianesimo a costituire la rinnovata sorgente di una identità e di una conseguente ritualità di cui abbiamo urgente bisogno? Joseph Ratzinger, Karol Wojtyla e tutti coloro che si riconoscono nel loro pensiero, a partire dai politici sovranisti e dai cosiddetti atei devoti, ritengono di sì e tendono per questo a guardare all'indietro. Hans Küng, Carlo MariaMartini, Raimon Panikkar e tutti coloro che si riconoscono nel loro pensiero ritengono di no e guardano in avanti, facendo del loro pensare e del loro operare non un baluardo difensivo ma un laboratorio di ricerca. Penso che parta da qui la differenza tra la politica che si definisce "conservatrice" e quella si definisce "progressista".  

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