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Gianfranco Ravasi “Apologia del padre eterno”

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Apologia del padre eterno
15 gennaio 2023 

In questo articolo il Cardinal Ravasi fa un’analisi delle ragioni di chi ha fede e di chi nega. 

Disoccupato, in crisi esistenziale ed etica, Neal D. Walsch è destinatario all’improvviso di un’illuminazione divina che lo trasforma in predicatore. Ben presto ha il suo seguito di adepti e un giorno, dopo il suo sermone, una donna del pubblico lo interpella: «Se Dio volesse farci pervenire il suo messaggio più importante, e Lei dovesse sintetizzarlo in una battuta, cosa ci trasmetterebbe?». Neal rispose: «Lo ridurrei a quattro parole: Voi mi avete frainteso». Il pensiero mi è corso a questa scena del film Conversazioni con Dio, girato nel 2006 da Steven Deutsch, leggendo uno straordinario saggio del noto teologo valdese Paolo Ricca lapidariamente intitolato Dio. 

Significativo, però, è il sottotitolo che introduce una parola che è diventata un tabù persino in teologia, «Apologia». Ma è proprio attraverso questo antico genere letterario, correttamente rivisitato, che si possono superare gli incessanti fraintendimenti a cui alludeva il Dio di quel predicatore. Ed effettivamente Ricca apre il suo percorso con un ventaglio decalogico di deformazioni che la cultura e la società moderna hanno squadernato: l’inutilità di un Dio, la sua riduzione a fiaba, il suo essere frutto di una nostra proiezione, l’uso narcotico di Dio, la sua morte conclamata, la velenosità del ricorso a un Dio, il suo essere una grande illusione, il suo scandaloso silenzio di fronte al male, la sua identificazione col Nulla contrapposto all’Essere, la sua riduzione a idolo. 

Ma non si pensi che Ricca – che in questa galleria di ritratti “teologici” sghembi rivela un eccezionale palinsesto di letture, delineate in un dettato tutt’altro che “esoterico” come certi scritti teologici contemporanei – si abbandoni solo alla pur legittima critica apologetica. La sua, invece, è una vera apologia che cerca di comprendere l’autenticità delle pulsioni e delle ragioni anti-teistiche senza cestinarle sdegnosamente; certo, ne smonta molte strutture, ma anche lascia penetrare queste provocazioni, accuratamente censite, come spina nella carne viva del credente soprattutto cristiano. Come scopriranno i lettori visitando questa sequenza di quadri “negazionisti”, in essi si manifesta infatti una temperie diffusa nei nostri giorni secolarizzati. 

Come prima abbiamo evocato un film, potremmo ora rimandare a quella pièce teatrale, intitolata ancora lapidariamente Dio, che Woody Allen ha scritto nel 1975, inserendone il testo nella raccolta Citarsi addosso (1976). In azione è il tradizionale Deus ex machina della mitologia classica (l’opera è ambientata ad Atene), ma l’esito è catastrofico: nella finale il macchinario si inceppa e il povero dio impotente perisce stritolato dagli ingranaggi. Nei nostri giorni siamo spesso lontani dalle roventi negazioni alla Marx o Nietzsche: a stendersi è piuttosto il velo dell’«apateismo» indifferente o grottesco. Ma, dopo questa pars destruens, come si usava dire nell’apologia tradizionale, quale è stata la proposta argomentata offerta dalle varie fedi? Non per nulla sia padre David Maria Turoldo sia Paolo De Benedetti avevano titolato due loro scritti con una domanda: Quale Dio?, domanda che è ripresa anche in una sezione di questo volume. 

È il corpus vero e proprio del saggio di Ricca: sono pagine in cui sintesi e profondità si intrecciano rivelando non solo la solida attrezzatura teologica dell’autore, ma anche la sua sintonia e simpatia di credente con le risposte elaborate dalle religioni a quell’interrogativo. Bisogna, quindi, fare scorrere l’imponente e millenario flusso delle asserzioni delle religioni, dall’induismo al buddhismo, dall’ebraismo-giudaismo all’islam, riassunte in miniature teologiche suggestive. Ma la pars construens fondamentale e più affascinante, meritevole di una lettura “sintonica”, è affidata a un dittico i cui quadri recano una definizione spoglia ed essenziale: «Dio nella Bibbia» e «Dio nella fede». 

Siamo ovviamente collocati nell’angolo di visuale cristiano. L’autore si preoccupa di disboscare una vegetazione ermeneutica selvatica contorta e offuscante, introducendo registri sorprendenti eppur autentici. Quello biblico non è un Dio cercato ma che cerca; in principio c’è la teofania, l’apriori è trascendente e fin paradossale come scopre lo stesso Paolo citando Isaia: «Fui trovato da quelli che non mi cercavano, mi manifestai a quelli che non chiedevano di me» (Romani 10,20). Inoltre, quello biblico è un Dio che non è mero frutto di dimostrazioni razionali spesso traballanti, è un Dio che si lascia contraddire dal male, dalla sofferenza e dalla morte (la teodicea insegna), è però anche un Dio che usa l’«io» personale («Io sono colui che sono») e, quindi, si rivela. 

L’altra tavola del dittico è necessariamente antropologica: alla «grazia» che ci precede ed eccede risponde la fede che a essa succede e si concede nella libertà dell’adesione. Ricca in queste pagine opera un’anatomia dal vivo perché evita la trattazione astratta ma estrae dal suo tesoro personale di fede «cose nuove e cose antiche», per usare una metafora evangelica. Appare in scena, allora, il Dio conoscibile e reale, prossimo a noi perché caricatosi in Cristo della nostra umanità, pronto quindi a intessere una relazione con noi. 

Un giorno papa Benedetto XVI, di fronte alla mia prolifica e variegata bibliografia, mi suggerì di scrivere un libro semplicemente su Dio. Non l’ho mai fatto perché è più arduo di quanto si immagini. Ora non è più per me necessario, perché l’ha fatto meglio di me proprio Paolo Ricca, convinto anche che «se nessuno sulla terra credesse più in Dio, non per questo Dio cesserebbe di esistere».

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