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“È la mafia che divorzia dalla Chiesa, non viceversa”. Intervista ad Augusto Cavadi

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PALERMO-ADISTA. Al di là di qualche facile ironia che pure si è fatta, è passato complessivamente inosservato il fatto che in uno degli appartamenti utilizzati da Matteo Messina Denaro – quello a Campobello di Mazara (Tp) – non siano stati trovati crocefissi e santini, ma pillole per accrescere la potenza sessuale e profilattici. Eppure i “mafiosi devoti” hanno avuto una certa familiarità con l’universo e la simbologia religiosa cattolica: dalle Bibbie e i rosari rinvenuti del covo di Bernardo Provenzano a Montagna dei Cavalli nelle campagne di Patti (Pa), al carmelitano Mario Frittitta che si recava regolarmente a Bagheria (Pa) per celebrare messa nel rifugio del latitante Pietro Aglieri in cui era stata allestita una cappella privata fornita di altare, fino all’assidua presenza dei boss in prima fila nelle processioni delle feste patronali utilizzate come vetrina per ribadire il proprio controllo del territorio con la benedizione ecclesiastica, tanto che molti vescovi meridionali hanno dovuto emanare delle specifiche normative per arginare le infiltrazioni mafiose (v. Adista notizie nn. 2, 12 e 31/15; 13/17; 9/19; 39/21; 23/22). È per questo che l’assenza di qualsiasi riferimento alla religiosità nelle abitazioni e nella stessa biografia di Messina Denaro può essere l’indizio di una sorta di “laicizzazione” di Cosa nostra e, paradossalmente, dell’avvio di una separazione fra chiesa e mafie più per iniziativa di queste ultime che di certi ambienti cattolici. 

Ne abbiamo parlato con Augusto Cavadi, filosofo e teologo laico, cofondatore della scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone a Palermo, autore di diversi volumi dedicati al tema Chiese e mafie, fra cui Il Dio dei mafiosi delle edizioni San Paolo (v. Adista Segni Nuovi n. 102/09) e Il Vangelo e la lupara edito dal Pozzo di Giacobbe (v. Adista notizie n. 4/20), ma anche Il Dio dei leghisti delle edizioni San Paolo (v. Adista notizie n. 17/12). 

Augusto, niente oggetti religiosi in casa di Matteo Messina Denaro? 
Messina Denaro è l’unico, o almeno uno dei rarissimi, boss nel cui covo non si sono trovati né Bibbie né crocifissi. Al posto di immagini di santi patroni, oggetti di lusso e pillole per potenziare la vitalità sessuale e profilattici. 

È una novità rispetto alla tradizione dei “mafiosi devoti”? 
Certo. Ovviamente mi riferisco non a ciò che si è trovato, quanto a ciò che non si è trovato: libri di devozione, statuine sacre, crocifissi, rosari... 

Però non si tratta di un elemento del tutto sorprendente per Messina Denaro. 
È vero. Si sapeva che il capomafia di Castelvetrano fosse un’eccezione rispetto alla regola statistica dei boss. Quindici anni fa Salvatore Mugno ha pubblicato le Lettere a Svetonio, missive autografe di Messina Denaro a un suo interlocutore chiamato, appunto, con il nome di un illustre romano antico. Nella terza di queste missive confidenziali, ad esempio, l’autore scrive: “Ci fu un tempo in cui avevo la fede, l’avevo in modo naturale senza imposizioni di sorta, poi ad un tratto mi resi conto che qualcosa dentro di me si era rotta, mi resi conto di avere smarrito la mia fede, ma non me l’ero imposto io ciò, è stata del tutto naturale la mia metamorfosi, vero è però che non ho fatto mai nulla per ritrovarla, mi sono accorto che in fondo ci vivo bene anche così, mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla, e sto vivendo per come il fato mi ha destinato”. 

Allora, se è così, Messina Denaro potrebbe appunto essere solo l’eccezione che conferma la regola: un mafioso ateo rispetto a tutti gli altri che restano devoti. 
Per molti versi egli è considerato un ponte di passaggio fra la “vecchia” mafia stragista e la “nuova” mafia affaristica (distinzione che ha senso solo se, contestualmente, si sottolinea il sottofondo ininterrotto comune a entrambe che sono sempre state, in proporzioni variabili, sia stragiste che affaristiche). Ebbene, anche dal punto di vista culturale – e specificamente religioso – direi che il boss della provincia di Trapani rappresenta più le nuove prospettive che le vecchie credenze. 

Qual era il senso di testi e oggetti sacri oppure delle messe celebrate nelle case dei mafiosi? 
I mafiosi non sono un esercito di cloni, ognuno di loro ha una biografia, una psicologia e, per quanto ciò possa suonare strano, una teologia. Molto schematicamente distinguerei due atteggiamenti rispetto alla religione, che peraltro possono convivere o meno in uno stesso soggetto: vi è il calcolo strategico di chi strumentalizza l’apparato simbolico religioso per costruirsi un’immagine pubblica accettabile, anzi ammirevole; e vi è la convinzione sincera che l’orizzonte terreno non è l’unico e che siamo tutti sotto una dimensione trascendente, numinosa, con cui dobbiamo in qualche modo fare i conti. Gli amuleti religiosi rinvenuti nei covi non appartengono alla religiosità di facciata, ma sono collegati alla sfera dei sentimenti privati autentici. 

Che religiosità è quella dei mafiosi? 
Parliamo volutamente di religiosità e non di fede… «Hai ragione. Se fosse una fede nel senso di accoglimento del messaggio evangelico e sequela del Predicatore nomade di Galilea, ai loro stessi occhi risalterebbe l’incompatibilità fra il Vangelo e la lupara. Invece, come per la verità avviene di solito nelle popolazioni di bimillenaria tradizione cattolica, dell’essenza originaria della proposta cristiana non si ha alcuna conoscenza diretta. Si vive una religiosità intrisa di paganesimo (decurtato dei suoi aspetti positivi, luminosi), di credenze superstiziose, di dogmi inintelligibili, di moralismi bigotti. Questo “cattolicesimo mediterraneo”, come mi è capitato di denominarlo nel mio Il Dio dei mafiosi, è dominato dalla figura di un Dio tremendo, di un Padre-padrino di cui i padrini terreni non fanno fatica a interpretarsi come riproduzioni in miniatura e strumenti operativi. Tra questo inavvicinabile Onnipotente senza misericordia e gli esseri umani peccatori si squaderna la corte dei santi mediatori: proiezione celeste dei professionisti della raccomandazione terreni. 

Ora è cambiato qualcosa? 
I clan mafiosi sono sottoinsiemi della società e ne condividono anche le vicende culturali. La secolarizzazione galoppante non ha dunque risparmiato organizzazioni criminali che pur ci tengono a legare le innovazioni del presente alle radici del passato. In una società, come ormai è anche la siciliana, in cui frequentare le chiese non è più uno status symbol, mostrarsi cattolici diventa sempre meno remunerativo in termini di consenso sociale. Se aggiungiamo che l’edonismo post-moderno e il consumismo di lusso sono diventati senso comune in ogni strato della popolazione, direi che Matteo Messina Denaro è un pioniere: anche nei covi dei suoi successori troveremo sempre meno simboli della tradizione religiosa e sempre più orologi di marca e supporti farmaceutici alla declinante virilità fisiologica. 

Quindi sono soprattutto le mafie che si allontanano dalla Chiesa. 
Per decenni i vescovi più illuminati e i preti più impegnati nel sociale hanno denunziato le collusioni fra ambienti cattolici e associazioni criminali. Perfino gli ultimi tre papi hanno levato alta la voce della condanna, della scomunica. Purtroppo queste denunce non hanno sortito gli effetti sperati: per ingenuità o in malafede, ancora troppi circoli cattolici rifiutano la mafia che spara, ma non quella che inquina l’uguaglianza costituzionale dei cittadini (manovrando dietro le quinte per distribuire i ruoli apicali nelle banche, negli ospedali, nelle università) e altera le regole del mercato europeo (con la corruzione, la concussione e il riciclaggio di denaro ricavato da traffici illeciti). Ora, dopo molteplici ma vani tentativi di allontanare certi cattolici dagli ambienti mafiosi, questa rottura si delinea possibile, ma per iniziativa dei mafiosi stessi che trovano poco interessante riconoscersi nel patrimonio dottrinario e nelle pratiche devozionali della Chiesa cattolica in declino. Personaggi come Matteo Messina Denaro lasciano sperare in un futuro di separazione netta fra Chiese e mafie: se non sono state le prime a troncare con le seconde, ci sono buone probabilità che si arrivi al divorzio per iniziativa dei boss emergenti. Maometto non si allontana dalla montagna per paura o per comodità, ma la montagna si va staccando da Maometto... 

Anni e anni di rapporti di collusione che finiscono così? 
In realtà il quadro sarebbe incompleto se non si considerasse che le parrocchie, sempre meno significative come agenzie culturali, non hanno perduto l’appeal elettorale. I casi di politici che hanno coniugato senza perplessità identità cattolica e familiarità con ambienti mafiosi ci dicono che i rapporti fra Chiesa e cosche continueranno a lungo. Il meccanismo della collusione è noto: ci sono esponenti politici double face che, da una parte, promettono favori agli elettori cattolici e, dall’altra, si accordano con i mafiosi e i loro amici per mantenere le promesse clientelari, soprattutto per quanto riguarda l’assunzione in posti di lavoro fisso nei settori sia pubblico che privato. Insomma: sarà sempre più raro il mafioso, come Pietro Aglieri, che passa dal seminario a Cosa Nostra e che, da latitante, chiede al padre Frittitta di turno di celebrare messa nella sua cappella privata. Ma anche il più “laico” dei mafiosi sa che le parrocchie sono ancora riserve non trascurabili di voti: dunque corteggerà il clero del Sud esattamente come la destra parlamentare, i cui esponenti sono quasi sempre abissalmente lontani dalla fede cristiana, continua a corteggiare il mondo cattolico. 

Che fare allora? 
Ci sarebbe bisogno di una evangelizzazione a trecentosessanta gradi delle nuove generazioni cattoliche (ma ciò vale anche per tutte le altre Chiese cristiane presenti in Italia): non solo con una teologia critica profondamente rinnovata, ma anche con un’istruzione sulla fisiologia e sulla patologia dei poteri.

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