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Cristina Simonelli "La passione della fede: preti di fronte al roveto"

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Scuola del clero 2022/23

La passione della fede: preti di fronte al roveto

Professoressa Cristina Simonelli

docente di Patrologia, Facoltà teologica dell’Italia settentrionale

Seminario, 10 gennaio 2023


Permettete che mi introduca, mentre vi saluto e vi ringrazio per l’invito, con una citazione agostiniana. Nel de trinitate a un certo punto Agostino fa questa affermazione: non ogni parola è vera, è propriamente vera “tantum amata notitia”, solo una parola amata: se ci pensiamo lo sappiamo profondamente tutti, per lo scambio fra amici, per la predicazione, per la meditazione. Se questo già ci introduce al tema di un ministero nel quale “ne va di noi” pur non essendo a nostra immagine, ma indicando altro, serve anche per dire che vi sono passi biblici che ci ospitano e ci indirizzano – sono “amata notitia” - e non possono essere moltissimi, dunque su di essi torniamo, nello scorrere dei tempi e delle stagioni. Sempre Agostino li direbbe “regulae”, ossia versetti, brani “regolativi”. Certamente questo del capitolo 3 di Esodo è uno di questi, immagino, per molti di noi, certo lo è per me: roveto che brucia e non consuma, terra santa davanti a cui ci si leva i calzari. Terra/casa/parola/vocazione che ci attraversa e ci mette in moto e ben ci introduce al tema che mi è stato proposto; dal roveto ci sposta su “passione: una parola attiva e passiva e che ben si adatta a un importante suffisso. Prima di tutto passiva: segnala dunque qlc che ci raggiunge, ci colpisce, ci coinvolge. Parola-esperienza, dunque, che, come voce suadente e forte, ci chiama, ci sospinge, ci mette in moto: in quello stesso tempo dunque muove in noi la passione in senso attivo. L’incontro con la Parola è infatti un luogo sintetico, nel quale le convinzioni diventano azioni e svelano subito l’inscindibile dimensione affettiva ed emotiva:


«Ogni storia – scrive Lucia Vantini – si riconosce per le tracce che lascia e per i sogni che coltiva. In noi, esseri di memoria e desiderio, il mondo assume una forma personale, plasmata da sensazioni, pensieri, emozioni, decisioni e azioni».


Come osserva, fra gli altri, Giorgio Bonaccorso è la struttura stessa della fede a svelare questo intreccio:


“La fede non è la conclusione di un ragionamento, ma l’emozione di un incontro che congiunge le diverse dimensioni dell’esistenza umana. […] La fede, infatti, sorge dove l’uomo si lascia sorprendere, turbare, stupire: essa non è l’azione dell’uomo [corsivi miei..] che regola i propri comportamenti, ma, in primo luogo, l’azione di un Dio che emoziona l’uomo, ossia lo muove verso il Regno”.


Certamente abbiamo sofferto e tuttora siamo convalescenti di una difficoltà di sintesi: così abbiamo spesso pensato a un mondo di convinzioni algide – e magari così tanto da apparire irreformabili e da diventare “pietre”, come si legge in AL 205 – e quando – o nei contesti in cui – c’è spazio per le emozioni, queste non hanno un presidio, non ricevono attenzione. Come scrive Luigi Girardi, riferendosi alla liturgia, ma in maniera estensibile, la celebrazione ha sofferto di tutto questo, stretta in una visione didascalica e strumentale del rito, che lasciava alle devozioni un campo emozionale non governato. Questo ultimo aspetto è rilanciato nella contemporaneità dalla seduzione delle emozioni collettive che gratificano sia l’esigenza gregaria e fusionale che quella individualistica. «La liturgia chiama in causa la dimensione affettiva della fede, ma lo fa in un modo specifico, che è legato alla sua natura di azione rituale… sia nel registro verbale che corporeo-gestuale». L’attuazione celebrativa costituisce un banco di prova per una considerazione integrale delle emozioni: significa passare dalla considerazione sulla natura dell’atto celebrativo alla verifica delle condizioni che rendono possibile il suo corretto sviluppo, mettendo in atto una «discrezione degli affetti della celebrazione».

Come dicevo prima, un’altra risorsa del termine sta anche nella sua disponibilità al suffisso: passione diventa agevolmente com/passione. Non solo nel senso, peraltro sempre importante, dell’empatia che si prova per le emozioni altrui – anche questa, dicono, legata alla capacità di essere in contatto sereno con le proprie - ma oserei dire in un senso prettamente ministeriale: come ogni cristiano adulto, ma in forma “ordinata”, che dunque connota ogni aspetto della vostra vita e contribuisce a strutturare la comunità, le vostre passioni, passive e attive” sono chiamate a essere non solo messe a disposizione di ognuno, ma anche a diventare promotive, a suscitare per quanto sta in voi simile postura in ognuno; a intuire le possibilità, a benedirle e dunque a creare quel nido di fiducia che molte volte consente che il roveto sia percepito, che le capacità fioriscano, che i limiti si possano accettare, che le domande e le crisi si possano affrontare e quant’altro. Ovviamente non siete voi il roveto, ma in qualche misura, come è stato per voi, a vostra volta potete essere la via che può condurvi, la mano che toglie gli ostacoli, che benedice, che promuove. La vostra passione della fede in questo è com/passione: secondo il detto ormai “classico” (Ministeria quaedam..) a voi non la sintesi dei carismi, ma il carisma della sintesi.

Rispetto a questo ci sono due modelli che mi sembra utile tenere in tensione fra loro. Uno è quello che Etiènne Wenger suggerisce tramite le comunità di pratica: mostra che le novità vengono di solito portate da chi ha posizioni liminali, perché partecipa anche ad altri mondi, mentre il centro è portato a mantenere le posizioni, ma può accogliere le novità tramite l’apporto dei margini: qui la passione è virtuosamente passiva, perché si lascia coinvolgere. Vi è poi la posizione che desumo da Giovanna Manzi, Ascolto e fiducia per fare la differenza, in Chiara Tintori (ed) Adesso tocca a noi. Donne, leadership e altri misfatti, pp 145-160: lei mostra invece come una leadership efficace si connoti anche per immaginazione e capacità di intuire nuovi scenari. Questa sarebbe una virtù ministeriale in senso attivo. A me pare che i due versanti si tocchino, e a seconda dei casi si incrocino e cedano l’uno il passo all’altro.


Senza pretesa di esaustività, provo a fare alcuni esempi.

a) Passione della resistenza, dello stabat mater, che è anche custodia della profezia: lo esemplifico tramite un altro brano/cifra, 1 Sam 3, 1-10, che fa parte anche di quelli scelti per il cantiere sinodale di questa diocesi. Anche con questa pericope entriamo nei brani consumati, si potrebbe dire, dalla frequente sosta, spesso utilizzati in senso vocazionale e dunque letti dalla parte di Samuele. Anche se l’etimologia del suo nome è incerta, la storia della sua nascita, pochi versetti prima, lo colloca vicino alle nascite/ascoltate (come Ishmael), e il canto di Anna, sua mamma, lo trasporta anche nell’orizzonte evangelico, con il Cantico sul cui calco viene redatto il Magnificat.

Ci soffermiamo qui però sull’altro versante della storia, su Eli. Intanto, abbiamo una descrizione della situazione che a qualcuno può apparire desolante, ad altri magari solo disincantata e realistica: la parola rara, le visioni non frequenti, per non dire assenti.

Certamente non è Eli il profeta: ma un resto di trasparenza nell’opacità del suo contesto gli consente di vedere il profeta e di consentire la sua profezia, trasmettendo una profonda sapienza, forse anche una lontana esperienza: di’ parla Signore, il tuo servo ti ascolta. La fedeltà a una piccola via (la lampada non era spenta..), per riconoscere e “autorizzare” un profeta imprevisto: parla Signore. Perché “sognando sogni” altri possano “avere visioni” (Giole 3,1-5;At 2,17-18). O altrimenti… la profezia irrompe ugualmente, ma davvero altrove e senza di noi

Da questo punto di vista utile sia il confronto con Simeone che, ancora, la dimensione ministeriale: ora lascia Signore.. perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, non è solo il buon atteggiamento di una vecchiaia non risentita (più facile a dirsi, che poi a farsi), ma è quella miscela di “ghereontopaidia” (per dirla nel lessico antico), quella attitudine sapienziale, giovinezza dello sguardo e maturità del giudizio, che non coincide con l’età anagrafica, anche se vi trova delle analogie. Se il ministero in ogni sua forma, non è sintesi dei carismi, ma carisma della sintesi, ha la grazia e il compito di riconoscere la profezia, come scriba fatto discepolo del regno, che tira fuori cose nuove e cose antiche…

Potrebbe sembrare una visione minimalista, forse sarebbe più entusiasmante prospettarsi il ruolo di profeti o di leaders carismatici. Potrebbe accadere, ma sono convinta che lo statuto profetico dovrebbero, in caso, essere gli altri a riconoscercelo. Il ruolo della/dello scriba invece è compito ministeriale, via possibile come quella di Eli che accende la lampada tutte le sere, è postura decentrata: il segno dello scriba riconosce i profeti, se sa coltivare un sogno e in questo modo dà riconoscimento ecclesiale alla loro visione.


b) Passione della conversione

Propongo in questa ottica una sorta di segno di Giona, ri/consegnando l’intero piccolo libro, che accosterò al suo gemello diverso, quello di Nahum. Nell’insieme le domande i dubbi e le domande risultano moltiplicate: il primo dubbio di Giona, il secondo dubbio di Giona, il terzo… finale aperto, specie se accostato a Naum. Questo l’inizio:


Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: 2"Àlzati, va' a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me". 3Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore. […]



Il breve libro è accolto fra i profeti, che chiamiamo anche "minori" (nella lista ebraica "che vengono dopo"), ma ha certo tutte le caratteristiche di un racconto istruttivo, una specie di parabola. Il nome del protagonista Giona figlio di Amittai corrisponde a quello di un oscuro profeta "di Galilea", del regno di Geroboamo (nel X sec aC: 2Re, 14,25) ma questa corrispondenza è certamente fittizia, le sue coordinate storiche e geografiche sono arditissime. Giona - il suo nome ha diversi significati, tra cui anche colomba -... si sente raggiungere da un tuono: Qum, alzati! Vai a Ninive la grande città.

Giona profeta simpatico, anti-eroe per eccellenza, si alza, sì, ma per fuggire in direzione contraria, a Tarsis, lontano da un compito ingrato. Comunque, fugge.

Sappiamo poi il seguito: tempesta in mare, lui risulta "colpevole" e viene buttato in acqua e salvato nel ventre del pesce "tre giorni e tre notti", da lei (il pesce diventa “pesciolina”) viene poi partorito a terra. Là, salvato, si sente nuovamente rivolgere lo stesso invito: Ionà, qum!

Come si è detto, poco lontano nella Bibbia c'è un altro libretto, quello di Nahum, percorso quasi interamente da oracoli contro Ninive, "città dei sangui", ir-damim: all'epoca della redazione di Giona, Ninive è già stata distrutta da almeno due secoli, mentre Nahum scrive probabilmente non lontano dai fatti. In certo modo Nahum e Ionà sono come due possibili finali, due diverse narrazioni della stessa storia, un rovescio della storia, con il finale aperto...


Sulla condizione disastrosa di Ninive infatti tutti concordano: "è salito il loro male al mio volto" (Giona 1,2); c'è violenza sulle mani di ogni ish, ogni uomo maschio di Ninive (cfr 3,8). Secondo Nahum è appunto "città dei sangui, tutto di lei è menzogna, di rapina è riempita, non mancherà di preda"(Nahum 3,1). Si può aggiungere che questa descrizione molto concreta di violenza, vicina ad altre pagine profetiche, ha poi un sinistro corollario: la città è descritta al femminile ed è detta prostituta, come accade anche a Babilonia, fino ad Apocalisse (Ap 17, Babilonia la grande, madre di prostituzione)


Dunque Ninive è stata distrutta, saccheggiata, rivoltata, stuprata, bruciata. Senza retrocedere dalla narrazione dell'orrore, la Bibbia ne sottolinea la valenza di ristabilimento della giustizia: la città eccelsa, la calpestano i piedi dei poveri, i passi degli oppressi (Is 26,5-6), echeggiato nel Magnificat di Maria: rovescia i potenti dai troni, rialza gli umili (cfr. Lc 1,46-55). In e attraverso questa finale drammatica, c'è anche un modo altro. Ecco che Giona rappresenta un controcanto, un'altra possibilità, come tale aperta e affidata alle mani di ognuno/a: come potrebbe essere la storia? cosa può accadere alla città?

Perché questo accada, c’è però anche un altro grande dubbio: cosa e “Chi” deve annunciare Giona? Qui sta l’esigenza della sua conversione

Giona predica, ancora 40 giorni e 40 notti (cifra importante nella Scrittura). La possibilità, cui non sembra per niente credere, è "girarsi, cambiare, con/vertirsi". Ma la possibilità trova invece attuazione, in un cambiamento di rotta che riguarda umani e anche animali, ogni vivente: "giriamo chissà che anche Dio non "giri", cioè che il male annunciato da Giona non si compia... Così succede, Dio fa grazia a Ninive: il risultato è una città diversa, dove Giustizia e Pace possano incontrarsi e baciarsi (cfr sal 85,11). Ma ecco ancora Giona con una reazione "significativa": ha annunciato giustizia, ma non ha approvato misericordia. Ormai la condanna era per lui pronunciata - eppure le parole le diceva, ma non le capiva. Perciò si ritira su un'altura sopra la città e vuole morire. Ha fatto una gran brutta figura e non è contento: aveva forse intuito, nel suo rifiuto precedente, che nel comando di Dio c'era qualcosa che sfuggiva, qualcosa che non lo convinceva. Gli oppone pertanto: lo sapevo... che finiva che ti pentivi, perché sei... e presenta una formula, che, certamente ben conosciamo: è il nome di Dio, il Dio dell'esodo e dell'alleanza, nome "aperto" nella teofania del Sinai. È come se dicesse: sei il Dio dell’esodo… non mi posso fidare di te… la stabile fedeltà che offri è quella della infinita misericordia delle tue viscere…Lo scritto dice: "perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato". E' una citazione di Es 34,6:

Il Signore, il Signore, Dio uterino [rahum] e misericordioso [hannuk], con le larghe narici [erek appaim.. tradotto lento all'ira e in greco makrothumos, dal cuore grande..], ricco di tenerezza e stabile fedeltà [rav hesed w''emet]….


Giona, dunque, profeta di giustizia senza misericordia aveva annunciato una cosa che non capiva fino in fondo, che potrebbe meglio capire: il rigore di Dio è misericordioso, come madre che non dimentica, come persona carcerata che ha tatuato il nome amato sulle braccia e le mani (Is 49,1). Come nell’episodio dei Magi: il re Erode consulta l’establishment sacerdotale e teologico. Sanno tutto, ma non capiscono.. serve una profezia straniera che muove il cuore, che converte anche l’intelligenza.


c) Passione dei confini, cioè delle domande

Il libretto del nostro anti/eroe ha un finale aperto anche in altro senso. Giona vuole morire e Dio lo consola facendo crescere un alberello sulla sua testa, per fargli ombra. Ma poi un verme lo colpisce alle radici e l'alberello si secca, lasciandolo senza riparo e ulteriormente contrariato. Meglio per me morire! Allora Dio risponde a Giona: tu hai compassione per un alberello che non hai piantato... e io non dovrei avere com/passione per Ninive nella quale adam [qui adesso c'è adesso il nome largo, che indica tutti gli umani, provenienti da adamà (la terra) vivi per damim (sangue, sempre plurale)] e animali?


Dunque, la finale è aperta, almeno per due ragioni: perché permette un altro sguardo, Ninive non è solo la città sanguinaria, ma è città che ha molti sangui viventi, molte piccole vite colpevoli ma anche innocenti, vite di cui Dio "che di tutto ha com/passione e niente disprezza di ciò che ha creato (Sap 11) tiene indelebile tatuata memoria.

In secondo luogo, perché finisce con un punto di domanda… che ricorda Is 21,11-12


«La falsa profezia è negazione della notte o negazione dell'alba […] I profeti non-falsi sanno abitare lo scarto tra la notte e l'alba, sanno stare con la propria ignoranza e con quella dei passanti notturni, fedeli nel proprio posto di avvistamento. I profeti sono gli esperti delle domande, soprattutto di quelle senza risposta. Così accompagnano e riempiono la notte parlando riparlando, ascoltando e riascoltando le domande di chi continua a chiedere. Sentinella [meglio: custode] quanto manca della notte» (Luigino Bruni, Elogio dell'auto-sovversione, Città Nuova, Roma 2017, 118).



Se certamente il ministero è un compito esigente – imita ciò che celebri” - porta con sé anche la grazia, la benedizione, la paraclesis / consolazione (cfr. le funzioni della profezia in 1 Cor 14: interpretazione, esortazione, edificazione, consolazione). In questo caso è anche passione nel senso di lasciarsi convocare, rilanciare, consolare: venite qui in disparte e riposate un poco… (Mc 6,31).

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