Erri De Luca "Recuperare il senso di comunità"
È sempre un piacere incontrare Erri
De Luca, scrittore, giornalista, poeta, un piacere ancora più grande
quando ci accoglie nella sua casa
nella campagna romana, a pochi
chilometri dal lago di Bracciano.
«Nessuno abita al piano di
sopra, di sotto, davanti, di
dietro. Un solo gradino fa
passare dal campo all’ingresso in cucina. Gli alberi
intorno sono stati piantati
da me. La loro ombra è stata opera mia». Dal nostro
incontro sono scaturite queste domande e queste risposte.
Da poco ha scritto un libro Spizzichi e bocconi che fra odori e sapori ripercorre i pranzi della domenica col profumo di ragù, di
pasti consumati in cantiere e nei campi
base in ascesa sulle vette, i pranzi nelle
osterie, dove le generazioni si mischiavano, «stanze di popolo». Il cibo, come lei
dice, è stato trattato con devozione da tutti
i popoli. Prima di ogni pasto si usano formule di ringraziamento. Una benedizione ebraica a fine pasto
dice: «Poiché abbiamo mangiato da ciò che è suo». Lei
ha studiato da autodidatta
diverse lingue, fra cui
l’ebraico antico, traducendo
alcuni libri della Bibbia.
Com’è nata questa passione per la lingua ebraica?
Intorno ai trent’anni mi sono trovato in un posto dove l’unico libro era la Bibbia. L’ho aperto per vizio di lettore. Ma
non era letteratura, non voleva interessare, affascinare, avvincere. Era il verbale di una divinità che si manifestava
con la voce a un suo gruppo di ascoltatori scelti. Seppi che c’era una lingua
originale in cui era stata fissata per la
prima volta, l’Ebraico antico. Comprai
la prima grammatica, iniziai a conoscerlo da solo. Da allora non ho più smesso
di frequentare ogni giorno le pagine di
quello che da noi si chiama Antico Testamento. Non sono credente. Sono un
lettore di storie sacre nella loro lingua
originale.
In uno dei sui libri lei ha scritto «Io non
so pregare», se sapesse pregare cosa direbbe?
Pregare significa rivolgersi con il tu alla
divinità. Non lo posso fare. Non presenterei una richiesta, un’assistenza. Credo che ringrazierei e basta, senza specificare di che.
Lei si dice non credente, qual è il suo rapporto con il cristianesimo, con la fede cristiana?
Leggo meno il nuovo testamento sempre per motivi di lettore. Mi manca la
sua versione originale. È una storia di
persone che parlavano Aramaico, versione successiva all’Ebraico, ma è stata
scritta in Greco. Gesù/Ieshu non parlava Greco.
Stabilita questa distanza dall’originale, si tratta comunque di una storia
ebraica diventata la nostra civiltà religiosa. Governa da un paio di millenni le feste, i lutti, i rapporti tra i popoli. Mi interessano alcuni episodi che
ho cercato di capire: le nozze di Cana,
l’adultera salvata dalla lapidazione, il discorso della montagna, per esempio.
In questi giorni sono riapparse le polemiche sulle Ong
che operano nel mediterraneo, soccorrendo vite umane. Uomini, donne, bambini che affrontano viaggi estenuanti per
avere la speranza di una vita migliore e
tutto questo non avviene per caso. Noi occidentali abbiamo saccheggiato e lo continuiamo a fare un continente intero e adesso…? Cosa ne pensa di questa situazione? Di questa indifferenza davanti a queste tragedie umane?
Indifferenza è un torto fatto a se stessi,
una volontaria incapacità di intendere
e volere. Indifferenza
nuoce a chi la prova, rendendo più deboli le sue difese immunitarie. Se non
si reagisce al dolore altrui
con la compassione, la solidarietà, si vive male la
propria vita. Questo riguarda le singole persone.
Quanto ai governi che
hanno responsabilità di
gestione dei flussi migratori, tutti loro
dimostrano invece una incapacità mentale, una inadeguatezza storica a regolare l’afflusso e il passaggio di manodopera necessaria. Tutti i settori economici lamentano un deficit di personale sia
stagionale che fisso, ma si preferisce che
la manodopera indispensabile arrivi di
nascosto.
In ultimo l’ostruzionismo verso le rarissime navi che scippano dal naufragio vite
perdute, è sia illegale che infame: il soccorso in mare è obbligatorio. Chi lo ostacola compie
il reato di omissione di soccorso.
Alle ultime elezioni più del
40% degli italiani non si è
recato alle urne, la Politica
con la P maiuscola ha lasciato il posto all’economia, alla finanza, al
Pil… sembra che piova sul bagnato, non
ci indigniamo più di niente… cosa rimane
oggi della passione politica?
In Italia esistono molte persone di sinistra, ma non la loro somma, non una formazione politica che le rappresenti. La
grande quota di non votanti me la spiego con uno sciopero del voto da parte di
elettori di sinistra. Poi esiste un enorme settore civile del volontariato che
non è rappresentato. Poi esiste una sensibilità ecologica che non è rappresentata. Queste elezioni sono scadute in
partenza, senza nessun programma di
idee, di immaginazione, solo promesse
di disbrigo di pratiche correnti. Chi si
limita a questo non riuscirà a fare neanche questo.
Su cosa possiamo fondare oggi una speranza relativa alla Polis?
Sul ripristino del sentimento di essere
cittadini, di appartenere a una comunità di persone con uguali diritti. Siamo
invece dei singoli clienti di fronte a
un’azienda, valutati secondo il nostro potere di acquisto. Se abbiamo censo sufficiente possiamo accedere a una buona istruzione, a cure mediche, a una giustizia equa. Altrimenti lo Stato diventato aziendale, ci tratta da consumatori
insolventi, esclusi dai suoi grandi magazzini. Serve recuperare il sentimento di cittadinanza e questo succede ogni
volta che ci si riunisce dal basso per difendere un diritto, per esempio quello
dei cittadini di Taranto alla integrità fisica rovinata dall’Ilva. La forma dell’assemblea libera, autoconvocata è la sede
della cittadinanza.
Lei oltre all’ebraico antico ha studiato il
russo, lo swahili, lo yiddish… in un mondo imperversato di parole, parole, parole… cosa possiamo apprendere da queste
lingue antiche? Qual è secondo lei l’importanza del silenzio?
Il silenzio non ha nessuna importanza se non è
praticato per ascoltare.
Se leggo un libro sto
ascoltando dentro di me
lo svolgersi di una storia.
Leggo l’Ebraico antico,
ascolto il fruscio delle
sue sillabe. Salgo in montagna e il fiato mi serve tutto per la
macchina cuore/polmone. Sto compiendo un lavoro manuale, il chiasso delle
lavorazioni mi fa concentrare in me
stesso, ascolto il corpo sotto pressione.
Ho imparato a leggere in altre lingue, posso dire perciò che so star zitto in
varie lingue mentre sfoglio le loro pagine. Solo la lingua Swahili, africana,
l’ho studiata per doverla parlare. Più
di mezza vita fa in Tanzania ero in un
lavoro volontario gratuito
in un villaggio per un programma di approvvigionamento idrico. Lì serviva
parlare in Swahili, unica
lingua orale della mia
vita. Tutte le altre le ho
cercate per la loro scrittura. Insomma sono uno
che definisce se stesso:
un lettore.
Da poco tempo è passato Natale, una festa che i primi cristiani non festeggiavano e che solo nel IV secolo fu fissata il
25 dicembre. La scelta di questa data derivò dal disegno di contrapporre la venuta del Signore al natale del dio Sole, la
festa pagana e mitraica del
Sol Invictus, celebrata proprio il 25 dicembre dopo il
solstizio d’inverno. Con il
passare degli anni questa
festa ha perso i suoi connotati originali, da festa di
un Dio fatto uomo, dall’incarnazione di un Dio che
non lascia solo l’uomo, siamo arrivati alla festa dell’ipocrisia, dell’apparenza,
del consumismo esasperato. Cosa ne pensa? Una provocazione, perché non ritorniamo a prima del IV secolo?
Nessun richiamo alla condizione di povertà, di esilio, di vagabondaggio di una coppia che non ha un posto dove far
partorire e deve provvedere da sola a
un alloggio di fortuna: niente di questi
richiami guasta la festa spensierata e
commerciale dei doni, dei pranzi, delle luminarie. Inutile il
tentativo di convertire il
Natale con la enne maiuscola al minuscolo natale
dell’origine. Lasciamo
che sia la celebrazione
paradossale dell’opposto.
Lei vive nella campagna romana. Com’è la vita in
campagna? Ha nostalgia della sua Napoli?
Nessuno abita al piano di sopra, di sotto, davanti, di dietro. Un solo gradino
fa passare dal campo all’ingresso in cucina. Gli alberi intorno
sono stati piantati da me.
La loro ombra è stata opera mia. Nel corso del
tempo ho preso tali abitudini o vizi che non mi
permettono di tornare ad
abitare neanche in un villaggio. Quanto alla nostalgia, per un difetto di
costituzione non ne conosco il significato, cioè non
vorrei tornare in nessuna
stazione precedente. Mi
basta poterle rievocare in
qualche storia che scrivo.
Grazie Erri, grazie davvero per le tue
parole.
Stefano Zecchi