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Biagio Conte

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Rai1 ha ricordato Biagio Conte, il missionario laico morto a Palermo per un male incurabile, con “Biagio”, il film di Pasquale Scimeca in onda sabato 14 gennaio 2023 in seconda serata. 

Il film racconta la vita di Biagio Conte, un giovane che viveva nella città di Palermo insanguinata dalla violenza mafiosa, lasciò la famiglia, gli agi e le ricchezze per dedicare la sua vita ai poveri. 

Per anni visse alla stazione con gli homeless, condividendo la loro esistenza di emarginati in un vagone. Poi, decise di occupare un edificio abbandonato di proprietà del comune. Nacque così la Missione Speranza e Carita’, una delle più rivoluzionarie esperienze di vita e di accoglienza nella città di Palermo. 

“Il cammino di fratel Biagio – spiega il regista Pasquale Scimeca – è sempre stato controvento. Mentre tutti quelli della sua generazione pensavano solo ad arricchirsi e consumare, lui si è spogliato delle ricchezze ed è andato a vivere nei boschi a cibarsi di bacche e frutti selvatici. Mentre tutti quelli della sua generazione gridavano “Dio è morto”, lui guardava verso il cielo per cercare Dio, quel Dio misericordioso e compassionevole, che alla fine ha trovato nei poveri, nei migranti, in chi ha perso tutto, persino la speranza. Ha camminato, fratello Biagio, ha gioito, ha cantato, ha sofferto, come San Francesco, ci ha indicato la strada, che poi è sempre quella, che tutti noi, persi come siamo nel buio di una notte che non vuol saperne di finire, abbiamo smarrito”.



di Giuseppe Savagnone 

La morte di Biagio Conte, a soli 59 anni, ha avuto una risonanza che va ben oltre la cerchia dei suoi collaboratori e sostenitori. La notizia è stata ripresa dai giornali nazionali che hanno parlato di lui, dando ampio spazio alla ricostruzione della sua storia. 

Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, ha emanato un’ordinanza con cui ha indetto il lutto cittadino e le bandiere a mezz’asta. E il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato come «punto di riferimento, non soltanto a Palermo, per chi crede nei valori della solidarietà e della dignità della persona, che ha testimoniato concretamente, in maniera coinvolgente ed eroica». 

Un’eco così ampia non era scontata. In questa società dell’immagine, del prestigio sociale e del potere economico e politico, Biagio Conte non vantava nessuno di questi titoli. Non era un «influencer», non aveva nessuna carica, neppure ecclesiastica, non faceva parte della «casta». 

Da quando ha fatto le sue scelte di vita, ha voluto solo esser «fratel Biagio», un poveraccio col saio e un bastone, che ha girato a piedi per l’Italia e per l’Europa, spesso dormendo all’addiaccio, mangiando quello che per carità gli offrivano, senza fare discorsi memorabili, semplicemente vivendo la sua povertà come una testimonianza per un mondo ricco, che non vuole rinunziare a nulla e non intende condividere con i bisognosi quello che ha. 

La «Missione di Speranza e Carità» 

I giornali hanno parlato di lui come di un uomo che ha speso tutta la sua vita a favore degli ultimi. Ed è vero. A Palermo aveva creato la «Missione di Speranza e Carità», dove accoglieva incondizionatamente poveri, senzatetto, migranti, ex tossici, emarginati. Il progetto, nel corso degli anni, si è allargato con la costruzione, accanto alla «Missione di Speranza e Carità», di altre realtà: «Città della gioia», «La Cittadella del povero e della speranza» e «La Casa di Accoglienza femminile». 

Oggi le diverse sedi accolgono oltre mille persone a cui sono offerti tre pasti al giorno, assistenza medica e, all’occorrenza, vestiti puliti. Chiunque bussa alla porta riceve ascolto e aiuto da una rete di volontari che si è creata intorno al fondatore. 

Ma tutto questo non va scambiato per una semplice opera assistenziale. Sarebbe, ancora una volta, ridurre Biagio Conte alle nostre categorie efficentiste. E non renderebbe ragione di altri aspetti fondamentali della sua figura, che non era certo quella del manager – si può essere tali anche facendo assistenza –, ma si radicava in una vocazione squisitamente spirituale per la povertà, pressoché incomprensibile in un mondo dominato dalla logica del benessere e del consumismo. 

Una scelta di povertà 

In questo senso davvero la storia di «fratel Biagio» ha delle analogie con quella di Francesco d’Assisi. Come Francesco, anche lui proveniva da una ricca famiglia – non di mercanti, ma di costruttori edili –, che lo aveva spedito a studiare in Svizzera, presso un collegio privato. Poi era tornato a Palermo, per continuare gli studi sempre in una scuola privata, ma aveva lasciato gli studi a 16 anni, iniziando precocemente a lavorare nell’impresa della sua famiglia. 

Era ricco ma insoddisfatto. «Mi stordivo con auto di lusso, griffe, belle ragazze e vestivo solo di grigio o di nero, la mia vita non aveva colori», racconterà. Aveva cercato di sfogare la sua inquietudine puntando sull’arte. A 20 anni, decise di andare a vivere a Firenze inseguendo il sogno di diventare pittore o scultore. 

Gli ci vollero sette anni per capire che neanche questo poteva riempire il vuoto che sentiva dentro. Fin quando non scoprì che a colmarlo poteva essere solo Cristo. Da qui, la scelta radicale di spogliarsi di tutti i suoi averi, lasciare i genitori e le due sorelle minori, per abbracciare la vita da eremita nelle montagne dell’entroterra siciliano e, successivamente, facendo un viaggio interamente a piedi verso la città di Assisi. 

Nell’estate del 1991 ritornò a Palermo con l’idea di partire in missione in Africa ma, camminando per le vie della città, rimase colpito del profondo disagio sociale e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di rimanere in Sicilia, per fare della sua scelta di povertà un dono a chi era povero senza averlo scelto. 

Ma il senso ultimo non è mai stato, come nelle analoghe istituzioni di “servizio sociale”, quello della pura e semplice integrazione dei bisognosi e degli emarginati nella società del benessere, bensì innanzitutto la testimonianza della condivisione e della fraternità. Non un rifiuto dello spirito della povertà, ma la consapevolezza che solo quando essa non è un destino che ci schiaccia essa può essere valorizzata nel suo autentico significato di libertà interiore dalle cose. 

Un rivoluzionario nella società e nella Chiesa 

È questa visione, drasticamente alternativa, che rende Biagio Conte un autentico rivoluzionario. Una rivoluzione spirituale, da cui però non è assente una dimensione politica. Che ha avuto le sue manifestazioni già nelle battaglie sostenute dal fondatore della «Missione di Speranza e Carità» per vincere la sordità e l’indifferenza delle istituzioni, anche a costo di prolungati scioperi della fame e proteste eclatanti. Ma soprattutto nell’additare un modello alternativo di società, dove i volti delle persone contino più del Prodotto Interno Lordo e dove la logica della solidarietà prevalga su quella della concorrenza. La rivoluzione di Biagio Conte comincia dall’anima e dai rapporti tra le persone. 

È una testimonianza su cui anche la Chiesa farebbe bene a interrogarsi. In un tempo in cui le chiese restano mezze vuote e si percepisce sempre di più l’irrilevanza della pastorale ordinaria nella formazione delle coscienze, Biagio Conte ha cercato di restituire attualità al messaggio cristiano con un forte richiamo al Vangelo, uscendo dai logori quadri di un ritualismo sempre più abitudinario e mostrando che cosa può significare realmente, per un credente, la scelta di Dio di venire a condividere la vicenda degli uomini. 

Di fronte a una struttura ecclesiastica che scricchiola sempre più vistosamente, i cristiani sono chiamati a reinterpretare in modo creativo le modalità della loro presenza nella società. L’esperienza di Biagio Conte può essere per questo una risorsa significativa. Lo ha sottolineato l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, quando è andato al capezzale dell’infermo pochi giorni prima della sua morte: «Siamo qui perché Biagio è colui che diventa la nostra stella, perché ci conduce all’essenziale e l’essenziale è questa via “altra” che dobbiamo imboccare». 

Non si tratta di imitare lo spogliamento di tutti i beni in cui si è concretizzata la scelta di «fratel Biagio», come non si è mai trattato di imitare le forme esteriori della vita di san Francesco. Ma ci sono dei cambiamenti di stile che sono diventati sempre più urgenti. Innanzi tutto per la Chiesa istituzionale: l’immagine del Vaticano, con le sue strutture burocratiche, i suoi intrighi, i suoi non sempre limpidi interessi economici, diventa sempre di più un ostacolo per la scelta di fede di molti, che ne restano scandalizzati. 

È chiaro che una grande comunità com’è quella ecclesiale non può fare a meno di un’organizzazione. Anche al tempo di Francesco d’Assisi la Chiesa ha sempre avuto il compito di conciliare la sua anima carismatica e profetica con quella istituzionale. Ma è sicuramente uno dei «segni dei tempi» di cui parlava il Concilio l’esigenza di ripensare questo equilibrio dando più ascolto alle voci, come quella di Biagio Conte, che la richiamano all’originaria esperienza evangelica. 

Sarebbe però un troppo facile alibi, per i credenti, scaricare tutto il problema sulle strutture ecclesiastiche. Urge una forte ripresa spirituale che restituisca ai cristiani – a cominciare dai laici e dalle laiche – il senso alternativo della loro vocazione e li renda consapevoli della loro missione «rivoluzionaria». 

L’irrilevanza del Vangelo nella nostra società non dipende certo soltanto dai vescovi e dai preti, ma dalla schizofrenia di tanti che si dicono cristiani ma pensano e operano ispirandosi a modelli culturali incompatibili con questo nome. La coerenza dei testimoni, nella sua radicalità, è un richiamo fortissimo a prenderne coscienza. 

Nell’ora della sua morte, Biagio Conte acquista più che mai il valore di un simbolo di tutto questo. Senza altra pretesa che quella di essere un «povero fratello» di tutti i poveri, egli ci indica una strada, difficile perché diversa da quelle a cui siamo abituati, ma che forse può aiutare anche noi – come aiutò lui – a colmare un vuoto a cui siamo troppo abituati. 

(di Cosimo Scordato) 

L’amico 

Conoscevo Biagio Conte dagli inizi della sua attività quando, di ritorno da Assisi, egli ancora doveva capire in che direzione fare le sue scelte. Egli cominciò a lavorare presso il nostro Centro sociale con i ragazzini, ma si rese conto che non era questo il suo compito; da allora cominciò a frequentare la Stazione centrale di Palermo assistendo di notte i barboni che lì si trovavano; così, a poco a poco si rese conto che la sua vocazione era il servizio ai più poveri dei poveri, a coloro che non riconoscevano a se stessi un posto all’interno della società. 
Da quel momento il suo itinerario cominciò a prendere forma come accompagnamento a loro, a partire dal cibo caldo portato per strada, alla ricerca di luoghi per ospitarli; così, uno dopo l’altro vanno nascendo le diverse realizzazioni dislocate nei diversi punti della città a favore dei barboni, delle donne in difficoltà, di chi è rimasto solo, degli stranieri in cerca di riparo. La sua presenza è stata subito accettata sia dai poveri, cui rendeva il suo servizio, sia dai tanti cittadini, che si cominciavano a stringere intorno a lui per sostenere nelle diverse iniziative lui e don Pino Vitrano (che quasi fin dall’inizio, avendo scoperto la sua vicinanza spirituale a Biagio, si sentì di lasciare la comunità salesiana); ma ancor più essa è stata importante nel garantire da decenni la convivenza pacifica tra i tanti stranieri i quali, pur provenendo da diverse esperienze etniche e religiose, hanno riconosciuto in lui la persona capace di realizzare uno spazio di collaborazione. Tutto il resto è storia abbastanza conosciuta, ben raccontata dalla stampa e recentemente rappresentata, in maniera magistrale, dal regista Pasquale Scimeca nel film, che ha voluto dedicare al profilo spirituale e umano di Biagio. 

Tra carisma e ministero 

Tante considerazioni possono essere avanzate; ma ci limitiamo a focalizzare la nostra attenzione a una sola domanda: quale carisma Biagio consegna alla chiesa palermitana (e non solo ad essa)? 

Il dato più rilevante che ci sembra di poter cogliere nella persona e nell’opera di Biagio è la diaconia della carità ai più poveri; nel suo caso, però, non si è trattato di organizzare qualcosa per loro, a loro beneficio; per esempio offrendo un servizio di accoglienza o di mensa; il che sarebbe pure una cosa importante; per Biagio si è trattato piuttosto di condividere con loro la situazione di disagio, di prostrazione, di marginalità nella vita sociale, spesso anche sull’orlo della disperazione. Biagio a poco a poco ha compreso che non si trattava di prendersi cura delle persone disagiate, ma di condividere con loro la situazione di disagio e insieme con loro cercare di venirne fuori, realizzando le condizioni migliori per un percorso di autoriscatto attraverso il loro coinvolgimento e facendoli maturare al punto da rendere loro stessi un servizio da offrire ad altre disagiati. Se vogliamo focalizzare la novità dell’esperienza vissuta da Biagio è proprio il fatto che la “Cittadella missione speranza e carità” nelle sue diverse articolazioni non è soltanto e in primo luogo per i poveri, ma dei poveri; Biagio e gli altri ‘fratelli’, che hanno condiviso questo percorso, hanno scelto di vivere insieme con i poveri oltre che tra di loro, condividendo la stessa speranza a fronte delle tante difficoltà. Lo slogan, tante volte ripetuto soprattutto in epoca postconciliare, della Chiesa povera e Chiesa dei poveri nell’esperienza di Biagio ha trovato una sua modalità di realizzazione nel fatto che Biagio con la sua comunità si è fatto poveri con i poveri, scegliendo di vivere con loro oltre che per loro. Il senso di fraternità che si respira nelle diverse cellule di convivenza è segno tangibile di questo ritrovarsi insieme per scelta a partire da un disagio ma lavorando insieme per superarlo. Se vogliamo meglio formulare questa esperienza possiamo individuare la seguente dinamica del carisma. 

In primo luogo viene avviato un processo di identificazione della comunità con i poveri, sulla linea dell’esperienza di San Francesco, ma attingendo, sorgivamente, all’affermazione evangelica secondo la quale Gesù Cristo vuole essere riconosciuto realmente in chi ha fame, ha sete, è straniero, è in carcere e così via. 
Detta identificazione va vissuta con quell’atteggiamento di com-passione in forza della quale si vive ad un tempo la passione per l’uomo che è in difficoltà e se ne condividono i problemi, ma soprattutto la voglia di avviare un processo di auto-promozione. 

Posto questo carisma, che attinge la sua identità e la sua forza dalla presenza vivificante dello Spirito Santo nella vita del credente-che-ama, si rende inevitabile il passaggio alla diaconia di fatto, ovvero quel servizio concreto che si traduce in tutte le iniziative, proporzionate ai bisogni degli ultimi ed efficaci nel cercare di avviarli a soluzione. Da questo punto di vista si può comprendere il vero movente dell’azione di Biagio e dei suoi collaboratori, ciò che li ha resi capaci di intraprendere con coraggio iniziative veramente difficili da gestire, quali quelle volte ai barboni, per natura non disposti a lasciarsi accompagnare e guidare verso un luogo comune; o quelle volte a sostenere la convivenza tra stranieri di diverse estrazioni culturale e religiosa, spesso anche conflittuale, facendo maturare una esperienza autentica di inter-religiosità e inter-culturalità. 

Per una diaconia della carità 

In questo contesto ci viene offerta una testimonianza importante di diaconia della carità, capace di superare le difficoltà dell’incontro tra le situazioni più diverse e disparate e che consente di toccare con mano il potenziale liberante e trasformante dell’atto di carità; esso, nel momento in cui dà la precedenza all’altro nei suoi bisogni, spiana la strada per un incontro e una convivenza serena se non addirittura gioiosa. 

L’atto di carità esercitato prevalentemente nell’ambito della reciproca ospitalità e accoglienza mostra la sua bellezza; in questa diaconia la parola cede il posto al gesto ed esso, in quanto si fa interprete del bisogno altrui per risolverlo, allenta tutte le tensioni e dispone all’incontro autentico, capace di mettere tra parentesi differenze e preistorie personali. 

La convivenza tra le persone più disparate, il coinvolgimento di ciascuno a dare il proprio contributo qualificato alla realizzazione della missione fa toccare con mano che l’amore, in quanto precede ogni pensiero e va incontro all’altro per porgere una mano di prossimità, crea una sorta di epoché delle stesse fedi o delle appartenenze che ognuno potrebbe rivendicare. 

Biagio in questo è stato vero diacono della carità ma a partire dai più bisognosi come a volere ricominciare la storia dal suo punto più basso: cominciamento chenotico! 
Questo si coglieva facilmente nel suo carisma in quanto lo sbilanciava verso di loro a prescindere dal modo come lui stesso narrava le sue esperienze o formulava i suoi pensieri; in verità era la sua persona a testimoniare prima e oltre ogni parola; da questo punto di vista da Biagio non bisognava attendersi bei discorsi o riflessioni originali o particolarmente attuali; in verità egli comunicava solo ciò che gli stava a cuore: i poveri e il loro punto di vista! 

E poi? 

Compito aperto per la Chiesa di Palermo, o forse per la Chiesa tutta, è che la strada privilegiata di ogni dia-logo non è il logos della parola ma il dia del gesto di amore che spiana ogni strada. Certamente nella vita di Biagio e della comunità non mancavano gli altri momenti della preghiera, della liturgia, oltre che la centralità della chiesa, luogo libero di incontro per tutti; ma è come se egli avesse operato un processo di reductio ad unum, che era all’origine e al compimento: l’atto di amore, organizzato comunitariamente e proporzionato ai bisogni di ognuno. 

La vita di Biagio ci consegna una esperienza singolare, che però è stata avvertita da tanta gente quasi in maniera immediata per la sua essenzialità e semplicità evangelica; si tratta, infatti, di un modello di carità, caratterizzata sine glossa dal carisma del servizio agli ultimi degli ultimi; la traduzione del carisma in una ministerialità organizzata è stato ed è un processo più complesso perché attiene alla vicende e sensibilità personali di ogni membro della comunità (accogliente ed accolta); ma essa offre in Biagio qualcosa di esemplare da elaborare come possibile modello. Adesso, dopo la morte di Biagio se la comunità ecclesiale tout court vuole ereditare ed assimilare tutto quello che di vivente egli lascia, non può non ripensare il suo esser-ci in questo tempo e in questo luogo dando spazio ai bisogni degli ultimi che la interpellano nel nome dell’Altro; da loro deve riprendere cammino la storia della salvezza se vuole essere alternativa alle forme disumanizzanti dello scontro e della frontalità ostile. In questo modo Biagio interpella da un lato la comunità a essere coerente come serva che si trova sbilanciata sulle orme del Signore; dall’altro lato, sollecita una riflessione che deve riscoprire e sprigionare il potenziale di tante parole che, se non si vogliono risolvere in altre parole, debbono potere evocare e promuovere fatti che le inverino.
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