"Dal lutto alla vita nuova" colloquio con Massimo Recalcati
Colloquio con Massimo Recalcati a cura di Donatella Ferrario
Jesus dicembre 2022
«Kum!», disse Dio a Giona e poi Gesù alla bambina in Marco 5,41-42. «Alzati!». Dio riaccende con
la parola-imperativo la fiammella della vita, è vero, ma la faccenda non è finita qui: chiede all'essere
umano un movimento, una risposta.
Kum è anche il nome che lo psicanalista Massimo Recalcati ha voluto dare al festival di cui è direttore
scientifico, proprio a indicare il senso della relazione terapeutica, della cura che esige un
cambiamento, oltre la tentazione di morte come paura di vita. Lo scorso ottobre, ad Ancona, nella sua
seconda edizione, il festival è divenuto cantiere aperto di attività e pensieri sul tema del fine vita, tra
chi persegue la resistenza a tutti i costi, chi la resa incondizionata, chi mette innanzi a tutto la dignità
da preservare. Come trovare il filo? Recalcati, che ha appena pubblicato per Feltrinelli La luce delle
stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, mi dà la sua risposta: «Non ho una concezione materialistica
della vita umana. Dunque non penso che la vita sia solo un respiro», afferma. «Credo che l'esistenza
di fronte a prove difficili e anche insormontabili debba provare a resistere. Ma credo anche che questa
resistenza abbia dei limiti. Per esempio quelli che una malattia estremamente dolorosa e senza più
speranza mette spietatamente in luce. Anche la potenza della medicina deve inchinarsi di fronte
all'ineluttabilità del male. Allora in questi casi la resistenza deve poter lasciare il posto alla resa. Che
non è affatto meno umana della resistenza! In questi casi estremi la morte non è più una maledizione
ma può essere un dono, può salvaguardare la dignità della vita. La dignità non è infatti solo della
resistenza ma anche della resa».
Anche Amen, il suo primo testo teatrale, edito da Einaudi, riflette su questi temi. Parte dalla vita stessa
del professore, nato prematuro, un "mucchietto d'ossa" il cui destino si credeva segnato, chiuso in
un'incubatrice, e a cui viene impartito un battesimo che è insieme estrema unzione. Un'opera tra
scienza e fede, con una madre che lotta e spera contro ogni speranza e contro le parole dei medici, e il
battito di un neonato che non vuol cedere. «Non è solo un testo sulla resistenza della vita», precisa,
«ma anche sulla sua resa. E la bellezza struggente che questa piccola e antichissima parola — Amen
— condensa. È la parola della benedizione di tutte le cose che vengono alla luce del mondo. Ma è
anche la parola che conclude la preghiera e che congeda la vita dalla vita. Il suo doppio senso illustra
il movimento stesso della vita rispetto alla morte, diastole e sistole, apertura e chiusura... Il mio
pensiero è spesso assorbito dalla morte. È stato così sin da bambino, a dire la verità. È ciò che mi
aveva fatto eleggere Gesù a mio eroe preferito: Lui aveva vinto la morte, era risorto, aveva spezzato la
sua tremenda presa. Aver presente la morte non deve abbattere la vita ma renderla consapevole che
nella caducità di tutte le cose c'è uno splendore di cui dobbiamo essere grati».
La morte che, così tangibile, l'ha accompagnato fin dai primi respiri, resta la protagonista con cui
confrontarsi nel nuovo libro, che affronta il trauma della perdita, non solo nell'esperienza legata alla
morte dei nostri cari, ma nell'incontro con la perdita che caratterizza il cammino umano nella vita.
«Cosa accade? Cosa significa perdere qualcosa che dava senso al nostro mondo? Perdere un ideale o
separarsi dalla propria terra, oppure da una stagione della vita? Mi soffermo, dunque, sul lutto e sui
suoi diversi destini. Il dolore della perdita può infatti essere rifiutato, come accade nella negazione
maniacale, oppure può dare luogo a un blocco della vita che non riesce a separarsi da ciò che ha
perduto, come accade nella reazione melanconica. In questo caso sperimentiamo una presenza che ha
assunto le forme estreme dell'assenza. Un'assenza che resta sempre presente e che finisce per
ingombrare la nostra vita, per bloccarla, appunto nel rimpianto e nell'auto-colpevolizzazione. Il
destino più fecondo di un lutto è invece quello di diventare un lavoro, un lavoro su quello che
abbiamo perduto. Un lavoro che assomiglia molto a quello dell'ereditare: portare con noi quello che è
già stato ma dandogli una forma nuova. È qui che appare il sentimento della nostalgia».
Una nostalgia che ha caratterizzato anche i due anni di pandemia in cui ci siamo sentiti congelati,
immobilizzati in giornate incerte, contraddittorie: forse come mai prima abbiamo ripensato al passato, anche prossimo, a quel 2019 che si invocava, tra l'ironia e la lacrima, in un rimpianto per ciò che
avevamo perduto o lasciato andare senza renderci conto della sua irripetibilità: come è possibile una
ripartenza sana, non ripiegata nella nostalgia? «Come nel caso del lutto», spiega, «esistono anche
forme diverse della nostalgia. Una è quella alla quale lei si riferisce: è quella che nel libro definisco
come nostalgia-rimpianto. In questo caso il passato occupa il centro della scena come un oggetto
irrimediabilmente perduto. Nostalgia è la tristezza di non potere più avere quello che si aveva avuto
prima: la giovinezza, il primo amore, la nostra casa, la forza del nostro corpo, eccetera. Si tratta di un
rimpianto inconsolabile che trascina la vita all'indietro. È quello che Gesù vuole colpire quando invita
il discepolo che ha perduto il proprio padre a guardare avanti, a lasciare che "i morti seppelliscano i
motti". Ma esiste anche una seconda forma della nostalgia che assomiglia di più a una specie di
visitazione. E la nostalgia-gratitudine. In questi casi il passato ci visita e ci porta luce, ci ricorda non
qualcosa che è morto e impossibile da avere, ma la bellezza e lo splendore di ciò che abbiamo vissuto
e dal quale possiamo continuare ad attingere linfa vitale. È la nostalgia al servizio della vita e non
della morte».
«Da bambino», continua Recalcati con una confidenza personale, «ho ricevuto un'educazione
cattolica. Ma il catechismo mi annoiava e mi pareva ispirato da una concezione solo penitenziale della
vita. Mi sono allontanato da quell'educazione con decisione negli anni dell'Università attraverso
Marx, Nietzsche, Sartre e Freud stesso. La formazione psicoanalitica e la sua pratica hanno
completato il mio percorso di distacco dalla mia educazione originaria. Ma dopo la nascita di mio
figlio ho, in modo imprevisto, ricominciato a leggere con occhi nuovi il testo biblico, soprattutto i
Vangeli. Ho così scoperto che la psicoanalisi non mi aveva affatto allontanato dal cristianesimo ma mi
ci aveva stranamente riportato. Chiaramente un cristianesimo che non ha nulla a che fare con
l'educazione catechistica che ho ricevuto. Un cristianesimo anti-sacrificale e fondato sulla centralità
dell'esperienza generativa del desiderio. Da questo punto di vista le parole di Gesù anticipano quelle
della psicoanalisi. Anche quando criticano il discorso religioso, il suo conservatorismo, la sua morale
sacrificale, le sue illusioni... Io ho fede in quelle parole, le condivido pienamente e penso che non
siano per nulla distanti da quelle della psicoanalisi. Per esempio nell'importanza che esse assegnano
alla potenza del desiderio. Un albero non si giudica da nient'altro se non dai suoi frutti: è una massima
che ogni psicoanalista condividerebbe. E vero che il mondo mitologico di riferimento della
psicoanalisi non è quello biblico ma quello greco: Narciso, Edipo, Elettra, Antigone sono figure che
appartengono al mondo classico. Ma lo sforzo che ho fatto in questi ultimi dieci anni è stato quello di
mostrare l'esistenza inaudita anche di radici bibliche della psicoanalisi. Inaudita perché Freud era un
ateo radicale, figlio della cultura materialistica dell'Illuminismo e del Positivismo. Ma il suo errore è
stato quello di sviluppare una critica religiosa alla religione senza accorgersi che la critica alla
religione (al fanatismo, al fondamentalismo, alla superstizione, all'idolatria) occupa un posto centrale
nella Bibbia stessa. Ho cercato di mostrare come alcuni temi chiave della psicoanalisi siano stati
affrontati con la stessa forza già nel testo biblico: il rapporto tra Legge e desiderio, l'invidia, l'odio,
l'erotismo, la differenza sessuale, la sofferenza, la potenza inesauribile del desiderio, l'erranza, la
trasgressione, il culto perverso degli idoli».
E la Chiesa? Che posto ha per Recalcati? «Una Chiesa che non è pervasa dalla testimonianza è
un'istituzione morta, senza vita. La testimonianza è il rinnovamento sempre in atto del tempo
originario del desiderio. Papa Francesco prova a ricollocare la testimonianza al centro del magistero
della Chiesa. Almeno questo è quello che i miei piccoli occhi mortali possono vedere».