Massimo Recalcati "Educare alla sessualità è compito della scuola ma non è una materia"
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2 Novembre 2025
Nel dibattito tra ideologie identitarie si rischia l’oscurantismo. Desiderio e libertà non si insegnano con un’ora di lezione.
Il movimento del Sessantotto e la rivoluzione sessuale che ha generato hanno avuto il grande merito storico di infrangere le catene di una morale sessuofobica che imprigionava il nostro rapporto con il desiderio e che faceva della sessualità un vero e proprio tabù. La parola “liberazione” ha trovato nel corpo un suo teatro decisivo: liberazione dal peccato, dalla vergogna, dal silenzio, dalla discriminazione che per secoli aveva avvolto la sessualità nella spessa nebbia della colpa. Il desiderio ha potuto finalmente essere pronunciato, esplorato, vissuto fuori dalla clandestinità austera del confessionale. Un nuovo illuminismo ha dissolto l’oscurantismo moralistico della condanna nei confronti di un diritto al godimento sessuale fine a se stesso, dunque sganciato dalle finalità riproduttive dettate dall’istinto. E, tuttavia, come spesso accade, ogni liberazione porta con sé nuove forme di cattività. Se allora il nemico era l’interdizione sessuofobica, oggi il rischio è, almeno ai miei occhi, un nuovo tipo di oscurantismo. Mi riferisco alla riduzione della sessualità a fenomeno da spiegare, classificare, amministrare. Ma anche alla sua colonizzazione da parte di ideologie diversamente identitarie che pretendono di racchiudere il suo mistero all’interno di categorie fatalmente rigide.
È in questo scenario più generale che dobbiamo collocare l’attuale dibattito politico
sull’educazione affettivo-sessuale nelle scuole. È una questione seria che non può essere liquidata
né con un moralismo rovesciato — condannare la sessualità eterosessuale come rigidamente binaria
e normativa di fronte ad altre forme di sessualità che sarebbero più libere ed espressive — né con
l’ingenuità scientista di chi crede che basti un modulo formativo per educare al mistero irriducibile
del desiderio sessuale e della vita affettiva.
Il punto cruciale è che tale educazione non può essere considerata una materia di scuola tra le altre,
non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è
nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico
rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la
matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze
naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da
trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto
custodita.
L’educazione affettivo-sessuale dovrebbe essere un obbiettivo trasversale dell’intera vita
scolastica, un suo effetto educativo essenziale più che una materia a sé stante. Ogni insegnante, ogni
adulto che abita la Scuola, è già — volente o nolente —, se si vuole proprio usare questa brutta
espressione, un “educatore sessuale-affettivo”. Il modo in cui si parla, si ascolta, si guarda l’altro,
il modo con il quale si riconosce pienamente la sua differenza, costituisce già una forma di
educazione in atto. Freud ci ha insegnato che la sessualità umana è, sin dalla sua origine, perversapolimorfa. Con questa formula egli non intendeva affatto descrivere una patologia, ma l’eccedenza
della sessualità umana da ogni forma di regola istintuale e di norma morale. L’animale umano è, per
definizione, sregolato, non ha istinti sessuali programmati, ma desideri che devono trovare una
forma di soggettivazione singolare. Come ricordava uno straordinario Giuseppe Ungaretti a Pasolini in Comizi d’amore, la sessualità ci rende tutti poeti, ovvero soggetti obbligati a un
esercizio di invenzione creativa.
Da questo punto di vista l’educazione sessuale e affettiva non può che essere una educazione alla
propria libertà e a quella dell’altro. Non esiste una sessualità “normale”, così come non esiste una
vita affettiva armoniosamente perfetta. Esistono solo tentativi più o meno riusciti di dare una forma
umana alla forza anarchica e sempre instabile del desiderio. Essere eterosessuali, omosessuali,
lesbiche, bisessuali, fluidi o altro non garantisce in alcun modo una vita sessuale e affettiva
realizzata e gioiosa. L’identità sessuale, qualunque essa sia, non salva dal rischio dell’infelicità, del
fallimento, del disagio e della solitudine. È un errore e una grave illusione pedagogica pensare che
basti riconoscere un’etichetta per risolvere il mistero del desiderio. La psicoanalisi ci ricorda che il
desiderio non è mai completamente trasparente a se stesso, che rimane sempre in esso un resto
opaco, un enigma irrisolvibile.
Ecco perché ogni vera educazione alla sessualità dovrebbe essere, prima di tutto, un’educazione al
mistero. Che cosa significa amare? Che cosa significa desiderare? Perché possiamo fare delle scelte
sessuali o amorose che anziché aprire la nostra vita alla pienezza della vita, la offendono e la
feriscono? Perché dovremmo sempre sottrarci a rapporti che assomigliano a delle catene e perché a
volte invece li ricerchiamo morbosamente? Perché non è così facile unire e non opporre il desiderio
all’amore?
Ma siamo sicuri che un programma ministeriale o un’educazione famigliare possano davvero
pretendere di dare risposte a questi interrogativi così cruciali che accompagnano da sempre la vita
umana? È la Scuola come comunità vivente che deve incaricarsi non tanto di rispondere a questi
interrogativi ma di educare quanto meno alla libertà, al rispetto delle differenze e al mistero.
Innanzitutto attraverso i poeti, la letteratura, il cinema, il teatro, insomma, attraverso la cultura che
già si insegna. In secondo luogo nel favorire nella vita scolastica di tutti i giorni la lotta contro ogni
forma di discriminazione, l’accoglienza della differenza, il riconoscimento del pieno diritto di
ciascuno alla propria libertà sessuale. Un dubbio: tutto questo si ottiene facendo della sessualità e
dell’affettività una materia di studio?
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