La speranza cristiana è fedele alla terra. Conversazione con Enzo Bianchi
La speranza cristiana è fedele alla terra. Conversazione con Enzo Bianchi
Siamo contenti che Enzo Bianchi, il
fondatore della Comunità di Bose,
ci abbia rilasciato questa bella e
densa intervista, tra le primissime
dopo gli avvenimenti che hanno attraversato quella comunità. In questa conversazione sono stati toccati molti
argomenti che riguardano l’essenza della fede e il modo
come cercare di viverla nella
compagnia degli uomini che
non vuol dire affatto annacquarla o nasconderla dentro
un involucro innocuo. Al
contrario rimettere Cristo al
centro è il primo compito di
una fede autentica. Non accontentarsi del non possiamo non dirci cristiani. Ma bisogna parlare una
lingua comprensibile ai nostri contemporanei.
Sono persuaso che da questo incontro siano venuti fuori spunti e considerazioni di
grande interesse esposti con
la consueta nettezza.
Ho appena letto Cosa c’è di là
che mi sembra il tuo libro più
intenso, più intimo, libro nel
quale vita e morte si richiamano, prendendo senso l’una dall’altra, la vita dal suo limite,
la morte da come si è vissuto.
Per me torna l’eco dell’essere
per la morte, di Heidegger, dell’uomo come essere tempo, limite. Ed è proprio la de-limitazione che dà forma e identità e può consentire una vita autentica. Tu stesso richiami il termine mortali come modo di
definire gli umani da parte dei greci. Ora il tuo
amico Galimberti dice sempre
che però i greci ci insegnano ad
accettare questo destino. Il Cristianesimo invece è la sfida
contro l’ingiustizia della morte. Soprattutto della morte del
buono, del bello, del giusto.
Questa pretesa sembra a molti
una follia, una specie di credo
quia absurdum, per dirla con
Tertulliano. Secondo te, dov’è
il fondamento di questa pretesa del Cristianesimo di conservare, restituire ciò che è bello,
ciò che è buono, ciò che è giusto?
Credo che siano diversi i fondamenti, anche se di diverso valore. C’è un fondamento che secondo me viene dalla nostra umanità: il fondamento di una giustizia che reclama un giudizio. Noi all’interno della vita
troviamo senso nel bene e vediamo il male
nella morte; tutto questo ci porta a giudicare, a discernere e a sentire come un dovere il bene, il vivere l’amore, e a detestare e rifiutare ciò che è male, fa male e
porta morte agli altri. Però poi la nostra
esperienza nella vita è che degli umani
vivono portando morte e altri vivono addirittura dando la propria vita per portare
bene, per instaurare amore, per generare
vita. Ecco io credo che di fronte a questa
esperienza della realtà, gli uomini da sempre hanno percepito dentro la storia, il bisogno che ci sia restituzione di integrità
ai poveri, alle vittime della
storia, ai disgraziati, ai sofferenti, a quelli che nella
vita sono stati derubati del
bene e della gioia, e che ci
sia un giudizio su quanti
hanno generato morte, hanno oppresso i fratelli, non
hanno ascoltato il grido dei
poveri, non hanno saputo
aver compassione e misericordia. Anche molti non credenti, penso soprattutto ad
Adorno e alla Scuola di Francoforte, sentivano questo bisogno e per me è sempre
stato, nella ricerca di senso della morte e
dell’aldilà, qualcosa che ho tenuto davanti.
Hai tratteggiato la ricerca comune degli uomini lungo il tempo ma qual è lo specifico punto
di vista cristiano?
La fede cristiana mi dice che Gesù Cristo è
risorto dai morti, Lui il primo dei fratelli,
Lui che mi precede. Ma attenzione, mi sembra che sovente la Chiesa
abbia su questo un messaggio troppo breve: Cristo è risorto perché era Figlio di
Dio, e allora molti uomini
possono dire, ma se è risorto semplicemente per quello, allora è qualcosa che riguarda Lui che era figlio di
Dio, ma a noi non ci tocca.
Ma se invece noi leggiamo
in Gesù Cristo l’uomo che ha
amato fino alla fine e che
Dio ha resuscitato proprio
per questo amore vissuto,
concretizzato nella sua vita,
in parole, in segni, in azioni, in comportamenti fino all’estremo, fino
a dare la vita per gli altri, e l’ha resuscitato
per questo il discorso cambia. È come dire
che c’è qualcosa nella nostra vita che può
andare al di là della morte ed è l’amore, lì
c’è la risposta davvero. Alla finale del Cantico dei Cantici, non a caso l’ultimo libro
del Canone Ebraico, l’amore e la morte sono
in continuo duello: chi dei due vincerà?
L’Antico Testamento lascia tutto aperto,
come una grande domanda, dice solo, forte
come la morte è l’amore, tenace come l’inferno è la passione amorosa, l’amore è una
fiammata del Signore, è una fiammata di
vita. Ma per noi cristiani questo diventa
qualcosa che in Gesù Cristo vediamo compiuto in pienezza e di conseguenza diventa un fondamento della nostra speranza,
della nostra fede. Lui è semplicemente il
primo uomo risorto da morte, noi dietro a Lui. Ed è
questa la nostra speranza di
poter vincere la morte con
l’amore, con quei frammenti di amore che sono già immortalità, se li abbiamo vissuti nella nostra vita e che
certamente non potranno
andare perduti.
Questo sorta di primato dell’amore, anche sulla fede, e
questo legare il discorso della
Resurrezione non tanto all’esigenza dell’immortalità quanto a un’esigenza di giustizia nei
confronti delle vittime. Le vittime ci saranno
sempre («i poveri li avrete sempre con voi»),
questa è l’altra domanda che ti volevo fare.
Anche nella società più giusta, ci sarà la sciagura, la disgrazia, la vittima e questo sarà tanto più drammatico proprio quanto più giusta
potrebbe essere la società.
Esattamente.
Mi ricordo una frase di Karl Barth nel Commento alla Lettera ai Romani,
quando afferma che i cristiani
sono più che leninisti, tanto per
dire che la rivoluzione potrebbe risolvere molti problemi,
ma rimarranno sempre le vittime.
Resta sempre la verità che
finita una rivoluzione bisogna metterne in conto un’altra, per un altro dolore, un’altra alienazione, un altro
male, perché le vittime ci saranno sempre. È l’assetto di
questo mondo che crea le vittime, le crea la vita, le crea
la natura, le crea la nostra limitatezza, la
nostra fragilità umana. E quindi per queste
io credo ci vuole assolutamente qualcosa che
dia a loro ciò che è mancato, altrimenti la
nostra vita è miserevole, ed è disperante per
quelli che in tutta l’esistenza non hanno mai
avuto la possibilità di essere persone con
una certa pienezza di vita e ce ne sono tante e le possiamo conoscere. Non è solo chi
muore di fame ma anche coloro che sono
colpiti da malattia grave nel corpo, nella
mente e che non possono mai fare un sorriso di gioia perché la vita glielo nega.
Il tuo ultimo libro mi ha ricordato una lettera
di Sorella Maria a quel grande
dimenticato, direi ignobilmente dimenticato, che è stato il
suo amico Ernesto Buonaiuti. Sorella Maria scriveva «Tu
Ginepro sei un mistico, io
sono una panica, amo la natura, la terra, i fiori, i tramonti, la musica». Mi pare che tu
ti senta vicino a questa sensibilità di sorella Maria, a questa sua fedeltà alla terra.
Tantissimo, da sempre ho
sentito questo amore, questa
venerazione, addirittura posso dire questa presenza nella vocazione di sorella Maria proprio soprattutto grazie a questo sentimento. In lei ho sentito una
dimensione alla quale non ho mai potuto
rinunciare: la libertà, sentirsi liberi sempre,
anche all’interno della Chiesa, lei mi ha confermato in questo che io sentivo fin da giovane ed ho sempre avvertito. È per questo
che nella mia vita non sono voluto entrare
nel sacerdozio, nonostante tante preghiere
a diventare prete, per questo non ho voluto
far parte della vita religiosa nonostante tanti inviti a diventare religiosi ma ho sempre
detto: siamo dei semplici laici, semplici laici come sorella Maria. Come soprattutto per
me è stato ispirante Pacomio, il grande fondatore della koinonia, del deserto. Semplici laici e in comunione,
una comunione che non abbia muri, che vada oltre la
Chiesa, nell’umanità ma poi
anche con tutte le creature,
con l’universo. E di conseguenza io ho sempre pensato che la Chiesa in qualche
misura faceva male ad avere il sospetto del panteismo
là dove semplicemente c’era
un panenteismo, cioè si vedeva Dio dappertutto. La Chiesa temeva la divinizzazione della natura,
l’idolatria, mentre invece la natura è come
la Bibbia, è il secondo libro che ci narra Dio.
Io credo abbiamo tre libri, la Bibbia, la natura e gli uomini, gli umani, uomini e donne. Tre libri che ci narrano Dio. Se noi tralasciamo uno di questi libri, abbiamo di Dio
semplicemente parole distorte.
Torniamo alla questione della morte, questa
grande rimossa, rimossa proprio nel senso freudiano, magari è andata a finire nell’inconscio
ma da lì disturba parecchio, non si acquieta.
Io ho fatto a tempo da bambino a conoscere
gesti che accompagnavano la morte. Mi ricordo quando morì mia nonna.
Lei dette proprio le ultime indicazioni, mi ricordo che disse a mio zio: «guarda che tuo
fratello ha le mani bucate, stai
attento se no non tirerà avanti
la famiglia». Oggi si vive una
forte crisi dei legami, tante persone vivono sole, i parenti
spesso sono lontani, la comunità locale è quasi evaporata.
Nell’evaporazione di questo
mondo come può essere vissuta la morte, umanamente o
il più umanamente possibile?
Ma certamente la fatica di
morire si è accresciuta, c’è
un accrescimento della morte perché la morte è diventata un evento
solitario, un evento non più accompagnato
da nessuno e sovente addirittura in isolamento. La grande esperienza che abbiamo
avuto durante la pandemia non è stata tanto il numero dei morti, ma come si moriva
negli ospedali, ormai strappati alle famiglie,
alle case, senza più comunicazione, intubati, senza più un volto, una mano vicina che
aiutasse nel trapasso, questa è una morte disperante. Non dimentichiamolo, la morte
da soli è una morte aggravata e noi oggi rischiamo questo, soprattutto nelle Residenze. Ma in molti contesti continua ad esserci
questa morte anonima e certamente noi
dobbiamo rifare i tessuti della vita per avere una morte accompagnata. È la qualità
della vita che può permettere una qualità
della morte, ma se non c’è una qualità della
vita, se si spegne ogni relazione, se gli affetti non sono più capaci di essere esternati, di
essere mostrati, se non c’è più nessuno che
è capace di fare una carezza anche a chi ha
l’Alzheimer, a chi oramai è in uno stato di
demenza senile o a chi non può sentirla più
perché è in uno stato comatoso allora le nostre morti fanno paura. Ci vuole la trasmissione di una grammatica umana di nuovo.
Io sovente sono chiamato in Hospice, in altri luoghi a meditare con loro su come si
accompagnano umanamente i morenti, non
certo a dare indicazioni tecniche perché non
sono un medico, ma per me è molto importante la prossimità, e mi soccorre l’aver visto da piccolo tante persone morire da vicino, accompagnate e poi di averne viste almeno quattro o cinque in Comunità, venute
da noi a morire e che sono morte mentre io
tenevo loro la mano e dicevo loro «vai, vai in
pace, vai in pace» e li accarezzavo. Io credo
che morti così dovrebbero essere possibili,
perché sono umane, non tolgono la gravità
della morte, ma non ci fanno sentire soli.
Però è evidente, tutto dipende dalla qualità
delle relazioni che manteniamo nella vita.
Mi permetto di mettere il punto interrogativo
sul titolo del tuo testo, Cosa c’è aldilà? Perché
ci si affollano tante immagini, forse anche tanti
desideri non soddisfatti qui, quelle alienazioni
di cui parlavano Marx, Freud e così via. Tante
pagine dantesche che hanno formato il nostro
immaginario collettivo. Ma soprattutto di un’altra rimozione vorrei chiederti: quella del giudizio. Si può pensare a un Dio così misericordioso e a buon mercato da essere indifferente
alle azioni e anche alla responsabilità umana?
Io da un lato devo dire sono convintissimo
della necessità del giudizio, lo confessiamo
nel Credo, il Signore verrà a giudicare i vivi
e i morti e quando lo canto, lo canto con
particolare convinzione. E attenzione, sono
convinto che innanzitutto il giudizio riguarda me e sono convinto che riguarda me nella condizione di peccatore. Ho fatto degli
errori, ho fatto degli sbagli, ho commesso
dei peccati nel linguaggio cristiano, ma conto sulla Sua misericordia. Nello stesso tempo devo dire che faccio fatica, questo sì, a
credere che il giudizio non avverrà o sarà
una specie di abbuono misericordioso per quelli che non hanno saputo rispondere a
chi chiedeva loro compassione e misericordia. Io resto convinto e lo dice anche Papa Francesco che tanti peccati che la Chiesa
considera gravi, come i peccati della carne,
che sono peccati di debolezza, spariranno
nel vedere il Signore. Sarà guardando Lui e
Lui negli occhi nostri, come dice il Profeta
Ezechiele, che questi peccati si dissolveranno e non li ricorderemo più e trionferà la
misericordia. Ma se noi di fronte a chi ci
chiedeva misericordia, pietà e compassione
non l’abbiamo data, io dentro sento la difficoltà che ci sia una remissione e penso con
Gesù a quella immagine, della Geenna, a
quella spazzatura di Gerusalemme, spazzatura dove vanno tutte le lordure della città.È una immagine, semplicemente io non mi
sostituisco a Dio e non voglio dire che ci sarà
una condanna eterna, no e vorrei che tutti
fossero salvati, ma alle persone che sono state ipocrite e che non hanno usato misericordia e compassione a chi glielo chiedeva
faccio difficoltà a credere che sia dato facilmente il perdono.
In un recente articolo su Repubblica, parli non
del rischio ma della realtà di una sorta di implosione del cristianesimo, implosione soprattutto del cattolicesimo e parli del rischio anche che resti un cattolicesimo senza cristianesimo. Mi sembra che la Chiesa stia tentando
di fare qualcosa sul piano assistenziale, fascia
alcune ferite, resiste, forse anche troppo, nel difendere ogni piccola trincea. Si è tentato con
il Sinodo, fortemente voluto dal Papa, di fare
un cammino di nuova connessione con la società, ma è un cammino faticoso perché, almeno a me pare, che il corpaccione della Chiesa, per così dire, non reagisce, non c’è la situazione che c’era al Concilio, dove veniva una
spinta dal basso che incrociava qualche cosa
che si muoveva anche dall’alto. Qui anche alla
base c’è un ‘rinsecchimento’. Penso ai laici,
alle donne. Adesso quando si vedono le immagini di riunioni senza donne, o è la Chiesa,
o è il Congresso del Partito Comunista Cinese
o è la Lega Araba. Per il resto le donne ci sono.
Anche l’esperienza della della Pro Civitate Christiana è stata un’esperienza in cui i laici, le
donne soprattutto, hanno fatto una prise de
parole: non potevano predicare dagli amboni
ma lo facevano nelle piazze, nei teatri e nelle
fabbriche. Non siamo oggi in questa situazione. Come la vedi? Da dove ricominciare per
avere in qualche modo una presenza significativa della Chiesa, delle Chiese anche in senso ecumenico?
Mah, innanzitutto devo dire due cose che
mi preoccupano davvero: la prima, io non
so se la Chiesa si rende conto che orami
da più di sessant’anni, da prima del Concilio, ha come unica preoccupazione se
stessa. Tutti i discorsi che noi facciamo
da allora mettono al centro la Chiesa, la
Chiesa e la sua struttura, la Chiesa e i
suoi ministeri, la Chiesa e la sua missione, la Chiesa e la sua liturgia, sempre e
solo la Chiesa, in modo ossessivo, posta
al centro di ogni discorso. E io ho l’impressione che questo, anche se non tutti
ne sono consapevoli, ha frustrato e affaticato la gente e non ha dato quel primato alla Parola di Dio, che per lo meno è
balenato durante il Concilio come urgenza e non ha dato quella centralità a Cristo che dovrebbe essere l’oggetto della
fede, della preoccupazione, di tutta la sollecitudine pastorale. Invece sempre, sempre e sempre la Chiesa. Io credo che questo ecclesiocentrismo regnante di cui non
riusciamo a spogliarci, non ci fa bene, non
ci ha fatto bene. Anche questo Sinodo speravo che prendesse una forma in cui di
più al centro si mettesse Cristo, invece ci
si attarda ancora una volta su tanti problemi della Chiesa. Ora i problemi della
Chiesa ci sono e certamente non basta,
come qualcuno vorrebbe una riforma spirituale, perché se c’è una riforma spirituale ci deve essere anche una riforma
delle strutture e quindi deve cambiare
qualcosa, deve cambiare soprattutto il
posto per la donna all’interno della Chiesa, devono cambiare i rapporti tra i ministeri, perché adesso c’è troppo clericalismo, deve cambiare una visione anche
della morale, perché l’antropologia è mutata e bisogna, pur nella fedeltà alla Parola di Dio, annunciare la Buona Notizia ma
in nuovi contesti antropologici, nelle nuove comprensioni che l’uomo ha di se stesso. Mentre invece questo mi sembra non
avvenga e continuiamo dunque, a cercare
di rispondere con molta inefficacia e sterilità alla domanda di Paolo VI del 1964;
«Chiesa che cosa dici di te stessa?» Ma il
Cristianesimo è molto più
che la Chiesa, non dimentichiamo che significativamente nel Nuovo Testamento l’apostolo Pietro a un certo punto, ha pensato bene
di non usare il termine
Chiesa quando parlava della Chiesa, ma ha usato due
volte il termine «adelphotes», il termine «fraternità»
richiamandola alla sua essenza. Noi oggi abbiamo bisogno della fraternità per dire la Chiesa e
se oggi la gente non va più in Chiesa, non
va più all’Eucarestia è perché là non trova la fraternità, la fonte della fraternità.
Per cui questo è il declino, questa è l’implosione. Manca davvero questo essere trascinati da una passione per Cristo e da una
fede per Lui. E poi sovente, rincresce dirlo, so che sono poco capito, ma tutti i discorsi che facciamo anche di etica sociale, è giusto che li facciamo, ma non devono essere i soli. Anche gli altri sono capaci di un’etica, anche quelli che non credono in Dio sono capaci di etica, non è vero
che senza Dio non c’è l’umanità, non c’è
l’etica. Loro sanno, o attraverso la loro ricerca o anche attraverso la loro spiritualità, con altro Dio o senza Dio, trovare delle
vie di etica, di morale. Noi invece oggi spendiamo e stemperiamo lì tutto il Cristianesimo. Ma il Cristianesimo è
speranza, il Cristianesimo è
fede, il Cristianesimo è vita.
Noi sappiamo dare vita agli
altri? Sappiamo trasmettere
vita, sappiamo trasmettere
passione, sappiamo trasmettere fiducia agli uomini? Queste sono le domande che ci
dobbiamo fare, invece ci perdiamo in discorsi che si mostrano a distanza di anni sterili, diventiamo sempre più delle minoranze, speriamo minoranze significative, ma se continuiamo così saremo solo
più delle minoranze che hanno sapore di
archeologia e di folklore.
Mariano Borgognoni