Marinella Perroni "Gesù e le donne"
"Visto il poco tempo a disposizione, mi limito ad alcune indicazioni che mi sembrano abbastanza efficaci. Partendo da una considerazione. Il più antico dei vangeli, quello di Marco, presenta un dettaglio curioso: ha due conclusioni. Per spiegare questa stranezza letteraria, si è supposto che, a una certa distanza dalla composizione originaria, qualcuno abbia sentito la necessità di completare il testo di Marco aggiungendo alla prima conclusione una seconda. Perché? Un motivo può certamente essere quello della completezza: poiché Marco non aveva raccontato alcuni episodi, che sono invece presenti nelle altre tradizioni evangeliche, qualcuno ha sentito il bisogno di aggiungerli al più antico dei vangeli perché ormai erano accreditati dalla tradizione. È possibile, però, anche altro: la finale originale del primo vangelo presenta una dimensione fortemente enigmatica di cui, soprattutto a una certa distanza sia dall'epoca dei fatti raccontati sia dal momento della composizione letteraria del vangelo stesso, molto probabilmente non veniva capito il significato. La seconda finale mirerebbe perciò a superare questa impasse: che il vangelo si concluda con l'osservazione che le uniche testimoni della risurrezione, le discepole di Gesù, attonite e impaurite, si sono chiuse nel silenzio ingenerava, evidentemente, una qualche perplessità perché appariva troppo minimalista. Al di là della possibilità di identificare il perché di una tale aggiunta, il fatto della doppia conclusione del più antico dei vangeli ha anche un aspetto inquietante. È proprio questo che vorrei prendere come punto di partenza per il nostro discorso.
Mettiamo a confronto dunque le due conclusioni. Nella prima, quella originale, l'evangelista dice: "Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e spavento. E non dissero niente a nessuno. Infatti, avevano paura" (16,8). L'ultima scena narrata dal primo degli evangelisti è dunque l'apparizione alle donne il mattino di pasqua: sono andate al sepolcro dove due giorni prima avevano visto deporre il corpo di Gesù per rendere onore alla memoria del loro maestro morto e hanno vissuto un'esperienza di rivelazione sconcertante. Come i profeti della tradizione biblica di fronte alle manifestazioni di Dio, anche le donne non fanno solo l'esperienza di una tomba ormai vuota, ma sono testimoni dirette di una manifestazione di Dio e ricevono una rivelazione divina: Gesù è risorto, la storia che ha avuto inizio con la sua predicazione non è finita con la sua morte, ma riprenderà ad opera di coloro che credono che Egli è vivo e riprenderà dalla Galilea, cioè esattamente da dove Gesù stesso aveva cominciato il suo ministero. Saranno proprio le donne a dover convincere gli altri discepoli che Gesù è vivo e li precede nel luogo del nuovo inizio.
Non c'è dubbio che nella mente dell'evangelista il "timore" e lo "spavento" che rende le donne incapaci di parlare sono degli indicatori chiari e inequivocabili del fatto che la loro è stata un'esperienza fortissima, una vera e propria rivelazione divina. La loro paura e il loro silenzio non sono dettagli di cronaca, ma segnali teologici per avvertire i lettori che la storia del profeta di Nazaret non si è conclusa con una pietra fatta rotolare sulla porta di un sepolcro perché un intervento divino ha riaperto prepotentemente i giochi: colui che era morto è risorto e cammina di nuovo davanti ai suoi discepoli anche se non appartiene più al mondo dei mortali. Marco chiude perciò il suo vangelo con una finale carica di emozione.
La seconda finale ha un tono totalmente diverso. Apologetico e non profetico, non più evocativo ma descrittivo: "Allora essi (gli Undici) partirono e predicarono dappertutto ..." (16,20). Non sono cambiati solo i toni, però, ma sono cambiati anche i protagonisti. Il discorso si è fatto ormai ufficiale, cronachistico, e mira a ragguagliare del fatto che la missione della chiesa avanza ordinatamente sotto la direzione degli Undici. Il protagonismo femminile è scomparso. Gli studiosi pensano che tra la prima e la seconda finale del vangelo di Marco siano passate pochi anni, al massimo una o due decine di anni. Dal punto di vista sostanziale, però, per le donne è passata un'intera epoca perché al tempo di Gesù e degli inizi segue ormai il tempo della normalizzazione.
Credo si possa dire senza rischio di essere smentiti che, lungo i secoli, la tradizione cristiana si è andata costruendo anche grazie a questa violenza: la parola autorevole, la parola ufficiale, quella che fa la storia della missione cristiana, viene sottratta alle donne. Se non sempre nei fatti, almeno nel racconto. Sappiamo tutti molto bene però che, per una religione di rivelazione, proprio i racconti ritenuti rivelazione di Dio hanno una portata immensa e giocano un influsso determinante.
Questa sera vorrei allora collocarmi prima della normalizzazione, all'inizio cioè della parabola del cristianesimo primitivo, per indagare quello che i testi sacri dicono, o lasciano almeno intravedere, riguardo al rapporto che Gesù prima e Paolo poi hanno stabilito nei confronti delle donne con cui venivano a contatto. Mi interessano i fatti più che le affermazioni.
Due avvertenze iniziali si impongono. Prima di tutto: prendere in esame due figure come Gesù e Paolo significa considerarle ciascuna all'interno del loro mondo, cioè il giudaismo palestinese e il giudaismo ellenista. Gesù e Paolo sono entrambi giudei, anche se intendono la fedeltà alla loro tradizione religiosa di appartenenza e l'osservanza della legge in modi diversi e molto diversi sono stati i loro orizzonti culturali e i mondi in cui hanno vissuto. Gesù si muove essenzialmente nella realtà rurale della sua terra di origine, la Galilea; Paolo agisce soprattutto nelle città dell'impero. Gesù intende chiamare alla salvezza esclusivamente l'intero popolo di Israele; Paolo vede davanti a sé, come obiettivo dell'annuncio missionario, i confini dell'Impero. Gesù vive nella convinzione che il tempo ormai sia divenuto breve e la fine sia vicina, mentre per Paolo il tempo è divenuto di nuovo lungo e chiede pazienza e impegno quotidiano. Entrambi però convergono su quanto è più importante: Dio non ha il volto feroce di colui che esclude, ma vuole l'inclusione e chiama perciò a un'elezione condivisa. Gesù verrà contrastato dai suoi stessi correligionari proprio perché la sua chiamata alla salvezza raggiunge anche coloro che secoli di pratica religiosa avevano ormai escluso dall'appartenenza al popolo dell'elezione, Paolo dovrà rivendicare lungo tutto il corso della sua missione la sua autenticità apostolica, contestata proprio a partire dalle sue aperture universalistiche.
La seconda avvertenza è che non possiamo capire quanto tanto Gesù che Paolo hanno detto e fatto se non ci liberiamo dal pregiudizio anti-giudaico che, magari sottilmente, alberga sempre nelle teste dei cristiani e ci porta a pensare che il loro atteggiamento liberale nei confronti delle donne (e non solo!) fosse dovuto al fatto che non erano più giudei ma si erano convertiti all'unica vera religione, cioè il cristianesimo. Anche senza accorgercene, ragioniamo sempre sulla base di questo presupposto. Tanto Gesù che Paolo, invece, non sono cristiani, ma restano giudei fino alla fine. Essi appartengono però a due espressioni della fede giudaica non fondamentaliste e aperte a interpretazioni della Scrittura e dei precetti favorevoli agli esclusi e ai lontani. Per questo, né l'uno né l'altro hanno atteggiamenti discriminatori nei confronti delle donne.
Discepole di Gesù
Non posso che limitarmi, evidentemente, ad alcuni accenni. Se si leggono i vangeli sinottici, una domanda si impone. Si tratta di una domanda inquietante: come è stato possibile che, per secoli e secoli, la tradizione cristiana abbia ignorato l'evidenza? O, al contrario: come è possibile che solo ora il protagonismo femminile appaia con chiarezza e con una pluralità di sfumature e accenti che consentono di ricavare da quei testi una vera e propria teologia del discepolato delle donne o una storia della partecipazione delle discepole di Gesù all'edificazione delle prime comunità di coloro che hanno creduto in Lui? Anche in questo caso, si può ben affermare che i processi di rimozione collettiva sono qualcosa di molto serio perché determinano convinzioni e sicurezze da cui è possibile prendere le distanze soltanto pagando un prezzo altissimo. Già solo questo dovrebbe farci tenere sempre alta la guardia, non soltanto riguardo alla più odiosa delle discriminazioni, quella che riguarda la differenza sessuale, ma anche riguardo a tutte le altre possibili discriminazioni. È ormai consapevolezza condivisa, infatti, che le interpretazioni della realtà e della storia sono appannaggio dei "vincenti", di qualsiasi egemonia essi siano rappresentanti.
Il racconto evangelico che contiene le più antiche tradizioni storiche su Gesù è certamente il racconto della passione. Esso ha rappresentato il nucleo intorno al quale si è andata costruendo, grazie alla predicazione apostolica, la ricca tradizione su Gesù a cui i singoli evangelisti daranno poi forma letteraria oltre che orientamento teologico. Tutti e tre gli evangelisti sinottici, Matteo, Marco e Luca, concordano nel riconoscere alle discepole galilee un ruolo decisivo nello svolgimento degli eventi pasquali. Sono loro, e per Marco e Matteo sono solo loro, che presenziano ai tre momenti decisivi della storia della passione, cioè a quegli eventi che diventeranno poi i tre momenti decisivi dell'annuncio di salvezza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù (Mc 15,40s.47.55 e par). Si tratta di una chiara testimonianza del fatto che per la prima predicazione apostolica proprio queste donne, la cui memoria si era conservata vivida durante la prima generazione cristiana, hanno fatto da cinghia di trasmissione tra il tempo della vita e della missione del Maestro e il tempo della sequela del Risorto. Non sono genericamente "le donne", ma alcune donne individuate e ricordate per nome, un piccolo gruppo che evidentemente riconosceva a Maria di Magdala un preciso ruolo di leadership nei confronti non soltanto delle altre donne, ma di tutti i discepoli. I racconti poi ci tengono a chiarire che queste donne non sono semplicemente delle visionarie, come pensano i discepoli maschi (Lc 24,10), ma sono discepole di Gesù che lo hanno seguito fin dall'inizio, durante la sua predicazione in Galilea, e lo hanno accompagnato lungo il cammino verso Gerusalemme, prima, e verso la croce, poi. Sono state, cioè, discepole di Gesù in senso pieno (Mc 10,40s e par): per questo la loro testimonianza pasquale diviene "buona notizia", evangelo. È questo il senso del famoso racconto dell'unzione di Betania con cui si aprono gli avvenimenti pasquali: quello che la discepola compie nei confronti di Gesù non esprime soltanto la sua piena comprensione di ciò che il profeta di Nazaret ha detto e fatto, ma si presenta simbolicamente come valore di riferimento per il futuro della missione apostolica della chiesa perché è "evangelo", buona notizia (Mc 14,9).
Essere state discepole di Gesù ha significato partecipare alla sua missione e mettersi al suo servizio. Non in termini riduttivi, come troppo spesso è stata interpretata la partecipazione delle donne alla vita delle chiese: Maria di Magdala e le altre con lei non assicuravano agli altri discepoli i servizi di cura, non garantivano pranzo e bucato e, se anche lo avessero fatto, non è certo per questo che vengono ricordate nei vangeli! Quanto si ricorda di loro e viene presentato ai credenti delle generazioni successive come esemplare è che hanno seguito il Maestro e ascoltato il suo insegnamento. Fino alla fine, cioè fino alla croce. Per questo nel momento della svolta decisiva, quando i discepoli devono imparare a riconoscere Gesù vivo in mezzo a loro, proprio alle donne viene chiesto di ricordare tutto quello che Gesù aveva insegnato e promesso durante il suo ministero (Lc 24,6). Se loro possono farlo è perché, evidentemente, erano presenti e avevano conservato nel cuore il significato di quell'esperienza di condivisione missionaria con Gesù.
Va detto però che, già all'interno dei vangeli sinottici stessi, è possibile intravedere i primi segnali di quella lunga storia di discriminazione che, progressivamente, si è andata imponendo all'interno della tradizione cristiana in termini direttamente proporzionali alla sua istituzionalizzazione, prima, e alla sua clericalizzazione, poi. L'evangelista Luca riserva certamente alle figure femminili uno spazio importante nel suo vangelo, dato che esse sono protagoniste di molte parabole e di diversi racconti di miracolo. Lascia però perplessi il fatto che Luca, quando parla delle discepole galilee, le descrive come impegnate nel sostegno economico alla missione dei discepoli e non più, come affermano Marco e Matteo, nella diaconia nei confronti di Gesù (8,1-3) e che, quando traccia il profilo ideale della discepola di Gesù, insiste sulla sua capacità di ascolto e di silenzio piuttosto che sul suo esercizio di parola apostolica (10,38-42).
Ben diversa, invece, la prospettiva del quarto evangelista. Per questo, non senza motivo alcune esegete hanno perfino sostenuto la possibilità che all'origine del più teologico e spirituale dei vangeli, quello di Giovanni, ci possa essere proprio una donna. Figure femminili come la donna di Samaria (4,1-30), Marta (11,17-27), Maria di Betania (12,1-11), Maria di Magdala (20,1-2.11-18) sono infatti i pilastri su cui poggia tutta la costruzione teologica del quarto vangelo. Più che i Dodici o Pietro, all'evangelista interessano proprio questi personaggi femminili con cui Gesù instaura discussioni teologiche di portata decisiva per lo sviluppo della rivelazione di Dio al mondo, prima, e ai discepoli, poi.
Il quadro che ci viene offerto dai quattro vangeli canonici, dunque, è chiaro e contraddice l'idea che si è andata diffondendo negli ultimi decenni secondo cui, al tempo delle origini cristiane, le donne hanno trovato spazio soltanto nei movimenti considerati ereticali. Esse hanno infatti giocato un ruolo di rilievo nella costruzione della tradizione su Gesù a partire dalla fede nella risurrezione e nell'edificazione delle prime comunità cristiane. Conferma però, d'altra parte, anche il sospetto che già molto presto un processo di marginalizzazione delle donne dai ruoli ecclesiali ha scandito le tappe del passaggio dalle comunità domestiche del primo movimento cristiano alle prime chiese presenti nelle città dell'Impero".
Il testo è tratto dall'intervento a una conferenza tenuta al Comune di Austis il 7 marzo 2009, che pubblichiamo per gentile concessione dell'autrice.