Adalberto Mainardi "La Pentecoste di Alessandria. L’ecumenismo vive"
Ortodossi e cattolici riflettono insieme su sinodalità e primato. Il documento di Alessandria rappresenta un passo importante verso l’unità, nonostante tante divisioni.
Effettivamente l’unità della Chiesa è opera dello Spirito Santo, non di una negoziazione tra le parti; ma lo studio della storia delle Chiese è necessario per documentare dove e come questa azione viene accolta e favorita, e gli snodi in cui essa viene contraddetta.
È quello che si è sforzata di fare la commissione teologica ad Alessandria, riprendendo le fila di un lungo e intenso lavoro storico e teologico.
Il Documento di Chieti, studiando la Chiesa antica, aveva individuato nell’interazione tra primato e sinodalità lo strumento concreto, operativo per così dire, per preservare l’unità della Chiesa salvaguardando la ricchezza molteplice e diversa dei doni dello Spirito Santo.
Nella Chiesa del primo millennio «il legame di unità era evidente nelle “molteplici riunioni dei vescovi in concili o sinodi per discutere in comune questioni di dottrina (dogma, didaskalia) e di pratica” (Chieti, 11) (…). A livello universale, la comunione era favorita dalla cooperazione tra le cinque sedi patriarcali, ordinate secondo un ordine preciso o taxis (cfr. Chieti, 15). Nonostante le numerose crisi, l’unità della fede e dell’amore è stata mantenuta attraverso la pratica della sinodalità e del primato (cfr. Chieti, 20)» (Alessandria, 0.2).
Rileggere insieme una storia travagliata
Dopo Chieti alla commissione mista si aprivano due opzioni: analizzare le divergenze dottrinali tra cattolici e ortodossi su un piano prettamente teologico (la processione dello Spirito Santo, la concezione del purgatorio, la figura della Madre di Dio, il primato petrino), o proseguire con lo studio storico degli sviluppi del rapporto tra primato e sinodalità.
Ripercorrendo insieme la loro storia, cattolici e ortodossi hanno cercato di evidenziare le diverse dinamiche del rapporto tra primato e sinodalità nella Chiesa cattolica e nelle Chiese ortodosse. Il valore del Documento di Alessandria non sta in una nuova ipotesi storiografica sulle relazioni tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa,
ma nel tentativo di rileggere insieme una storia che il documento stesso definisce «travagliata», e che è anche una storia di ferite e risentimenti. È un rinnovato sforzo di comprensione, di dirsi con e insieme all’altro, di offrire agli uni e agli altri «la gradita opportunità di spiegarsi (…) in vari punti del percorso» (Alessandria, 0.3).
Non è naturalmente possibile rendere conto qui in dettaglio del percorso storico-teologico tracciato dal documento. Tuttavia, è importante segnalare i passi salienti, che decostruiscono alcune immagini falsate fabbricate nei secoli dalla controversistica.
Un’altra dolente pagina riletta insieme è quella delle crociate, in particolare la quarta (1204) con il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati, e il conseguente stabilimento di una gerarchia latina in Oriente: una ferita ancora aperta per l’ortodossia, che solo un cammino di purificazione della memoria e di pieno riconoscimento dell’ecclesialità dell’altra Chiesa potrà risanare.
È significativo che i tentativi di ricomporre lo scisma passassero per la via conciliare: il secondo concilio di Lione (1274) e il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Il documento di Alessandria offre una valutazione contestuale della mancata ricezione di queste unioni. È interessante notare che sono messe in rilievo le tre condizioni, incluse nel decreto del concilio fiorentino, sotto le quali i greci accettarono l’affermazione del primato papale: 1) doveva essere secondo «gli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni»; 2) la menzione delle altre sedi della pentarchia e 3) la conferma dei privilegi e dei diritti dei patriarchi (1.18).
Nei secoli successivi la pratica della sinodalità non fu mai abbandonata dalla Chiesa occidentale, mentre l’esercizio di una funzione primaziale all’interno dell’ortodossia dovette confrontarsi con il sorgere di nuove Chiese autocefale nel corso del XIX secolo: la Chiesa di Grecia (1850), la Chiesa serba (1879), la Chiesa romena (1885), la Chiesa bulgara (1872: quest’ultima non viene citata nel documento di Alessandria, perché fu riconosciuta da Costantinopoli solo nel 1945).
Si tratta di un punto spesso occasione di fraintendimento nei rapporti ortodosso-cattolici. Riguardo alla giurisdizione «ordinaria» e «immediata» del papa definita dal Vaticano I, il Documento di Alessandria cita l’autorevole interpretazione di Pio IX nella lettera ai vescovi tedeschi del 1875, in cui il papa smentisce nel modo più deciso che il nuovo dogma sospenda le prerogative dell’episcopato, che al pari del primato «è di istituzione divina».
La commissione ha cercato di sgombrare il campo dagli equivoci di un’interpretazione massimalista del Vaticano I, per concentrare il lavoro teologico sui reali punti di divergenza. Il documento di Alessandria riconosce infatti che «l’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione su tutta la Chiesa e sull’infallibilità papale (…) è per gli ortodossi un grave allontanamento dalla tradizione canonica dei padri e dei concili ecumenici, perché oscura la cattolicità di ciascuna Chiesa locale» (3.10, corsivo mio).
È proprio qui il nodo irrisolto del dialogo cattolico-ortodosso, che si riverbera anche nelle difficoltà interne sia alla Chiesa cattolica sia alle Chiese ortodosse: il rapporto delle Chiese locali tra di loro e il modo in cui in esse si manifesta la cattolicità della Chiesa. È il problema ecclesiologico del terzo millennio.
Luci e ombre
La parte del documento dedicata al XX e XXI secolo traccia un parallelismo tra il cammino conciliare della Chiesa cattolica con il concilio Vaticano II, e quello delle Chiese ortodosse con la lunga, quasi secolare preparazione del concilio di Creta, celebrato nel 2016.
Vengono poi riprese (in 4.9-10) le importanti aperture sul tema del primato e della sinodalità, rispettivamente, di Giovanni Paolo II e papa Francesco: da un lato il riconoscimento che la forma dell’esercizio del primato – senza rinunciare alla sua missione ― possa e debba cambiare, grazie anche a una riflessione condivisa con le altre Chiese, per «realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint 95); dall’altro l’insistenza di papa Francesco sul cammino sinodale come via di tutta la Chiesa, in cui i cattolici sono invitati a mettersi alla scuola dei fratelli ortodossi (Evangelii Gaudium 246).
Il documento di Alessandria è significativo per quello che dice ma anche per quello che non dice o non riesce a dire. Così nella seconda parte vengono trattate le unioni con Roma dei secoli XVI-XVIII, che paradossalmente hanno creato divisioni e conflitti in seno alle Chiese ortodosse, aprendo ferite non ancora rimarginate.
Tuttavia, non c’è alcun cenno al Documento di Balamand (1993), di cui quest’anno cade il trentesimo anniversario, nel quale la stessa commissione di dialogo aveva cercato di indicare una via con concrete indicazioni pratiche per risanare i violenti conflitti sorti nei primissimi anni Novanta, dopo la legalizzazione delle Chiese greco-cattoliche soppresse dai regimi comunisti in Europa orientale.
Le assenze
Non tutte le Chiese ortodosse erano rappresentate ad Alessandria. Oltre alla Chiesa bulgara, ritiratasi dal dialogo con i cattolici sin dal 2009, non erano presenti il patriarcato di Mosca, la Chiesa ortodossa serba e il patriarcato di Antiochia: un’assenza che rende difficile la ricezione futura del documento.
La tesi principale è che nella Chiesa ortodossa non può esistere un primate che abbia privilegi speciali rispetto agli altri capi delle Chiese locali. Il patriarca di Costantinopoli gode di un semplice primato d’onore (che Mosca intende nel senso di «onorifico»), senza altre prerogative se non quelle che riceve dal consenso delle Chiese ortodosse locali. Secondo questa prospettiva, lo stesso concilio panortodosso di Creta, non avendo ottenuto l’adesione di tutte le Chiese ortodosse locali, deve essere derubricato in semplice assemblea episcopale interortodossa. Come si vede, l’articolazione tra prerogative primaziali e prassi sinodale è un problema della più grande attualità, che tocca trasversalmente sia cattolici sia ortodossi.
Il Documento di Alessandria ricorda come la terminologia di «Chiese sorelle» fosse stata utilizzata da Atenagora e Paolo VI in riferimento alle due Chiese locali di Roma e Costantinopoli (4.8).
Chiese «sorelle» non è l’espressione di una definizione canonica, ma il riconoscimento pieno di stupore dell’agape fraterno, di una sincera sollecitudine delle Chiese le une per le altre, del desiderio di vivere l’unità voluta dal Signore.
La spaccatura che attraversa l’ortodossia oggi, esacerbata dalla guerra in Ucraina, interroga anche la Chiesa cattolica. Se cattolici e ortodossi sapranno di nuovo riconoscersi reciprocamente come Chiese sorelle, chiamate ad affrontare gli stessi problemi e a testimoniare la stessa speranza, senza dimenticare il cammino storico doloroso, per gli uni e per gli altri, delle Chiese orientali unite a Roma, potranno credibilmente impegnarsi sulla via della comunione e dell’unità, che non è mai semplicemente garantita dalle strutture canoniche, ma deve essere sempre ricercata e voluta; potranno invocare insieme il dono della pace dal Signore della pace.
Fonte: La Nuova Europa
Adalberto Mainardi, Monaco a Cellole (San Gimignano), dal 1993 al 2020 è stato segretario scientifico dei Convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa organizzati dal Monastero di Bose in collaborazione con le Chiese ortodosse, curandone gli Atti. Si occupa di storia della Chiesa ortodossa russa, di spiritualità ortodossa e di ecumenismo. Dal 2012 è membro del Saint Irenaeus Joint Orthodox-Catholic Working Group.