Vito Mancuso “Per dire addio”
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La fine delle gemelle Kessler e quella della Vanoni sono state diverse: una “culturale”, l’altra naturale. In Italia serve una legge che permetta di scegliere sugli ultimi giorni.
Ogni giorno leggiamo della morte di qualcuno: è la logica della notizia, e la morte fa sempre
notizia. Però ci sono alcune morti che ci toccano più di altre perché riguardano persone che hanno
accompagnato a lungo il nostro cammino, il loro volto e la loro voce ci erano noti dall'infanzia e ora
che non ci sono più anche una parte di noi se ne va: la loro morte ci riguarda nel senso forte del
termine "ri-guardare", cioè guardare con attenzione, quasi scrutare. La fine delle gemelle Kessler e
di Ornella Vanoni appartengono a questa categoria.
Si è trattato però di due morti del tutto diverse: la prima programmata, la seconda arrivata
all'improvviso; la prima decisa, la seconda subita. Si può dire che la morte di Ornella Vanoni è stata
naturale, nel senso che lei se ne è andata quando la natura, o il destino, o Dio, hanno voluto. La
morte di Alice e di Ellen Kessler, invece, è stata del tutto diversa e per questo richiede un altro
aggettivo: non più naturale, bensì culturale. Sì, si è trattato di una morte culturale.
La cultura nasce ogni volta che si attivano l'intelligenza e la libertà. Per esempio all'inizio gli
uomini si limitavano a raccogliere i frutti della terra, poi un giorno qualcuno capì che la terra si
poteva coltivare e da questa coltivazione nacque l'agri-coltura, termine che da subito rimanda a
cultura in quanto condivide la medesima radice tratta dal verbo latino "colo" (da cui cultus, che,
prima di "culto", significa "coltivazione"). Ma non solo la terra, anche la vita si può coltivare, anche
di essa si può scegliere di non limitarsi a raccogliere i frutti prodotti spontaneamente ma di farne
spuntare di nuovi: e infatti tutte le espressioni culturali quali l'arte, la scienza, la religione
manifestano questa libera volontà di coltivazione, dato che nessuna di esse è naturale. Oggi gli
esseri umani giungono a esercitare la loro intelligenza e la loro libertà producendo cultura anche
sull'inizio e sulla fine della vita. Per quanto concerne l'inizio, si va dalla contraccezione al progetto
"Preventive" finalizzato a prevenire le malattie genetiche (di cui dava notizia una decina di giorni fa
questo giornale). Per quanto concerne la fine, il suicidio medicalmente assistito cui hanno fatto
ricorso le gemelle Kessler ha segnato probabilmente il vertice mediatico della morte culturale in
quanto scelta libera e responsabile.
Oggi in Italia, a differenza della gran parte dei paesi europei, manca ancora una legge nazionale sul
fine-vita, quindi non è possibile esercitare completamente la propria autodeterminazione sulla
modalità della propria morte. Forse qualcuno non ne sente il bisogno, forse qualcuno ne ha paura,
né sono pochi a pensare che la legge non vi sia a causa dell'opposizione della Chiesa e dei politici a
lei sensibili. Ma non c'è sondaggio che non attesti la volontà della gran parte degli italiani di poter
avere il diritto di scegliere come andarsene, o in modo naturale o in modo culturale, in ogni caso
liberamente scelto.
Ma proprio a causa del fatto che la principale opposizione al suicidio assistito proviene dalla Chiesa
(fino a questo giudizio del vescovo Giovanni Paccosi sulle gemelle Kessler: «Come dovevano
essere piene di ricordi ma anche come dovevano essere vuote, vuote di amicizie, di speranza, di
attesa. Tutto alle spalle e nulla davanti»), credo sia opportuno un breve commento filosofico-teologico.
La questione del fine-vita si determina considerando con onestà intellettuale "il fine" della vita: è
cioè il fine, inteso come scopo, a disciplinare la fine, intesa come cessazione. E qual è il fine della
vita? Ognuno lo determina da sé: sulla questione più importante ci ritroviamo irrimediabilmente
divisi. Persino all'interno della propria famiglia. Ed è sempre stato così: da sempre gli esseri umani
si dividono sul senso che danno alla vita. Per alcuni le sofferenze non costituiscono un motivo per
andarsene, ma al contrario le ritengono occasione di purificazione, di espiazione, di sacrificio. Sono
sentimenti nobili, e se qualcuno pensasse che lo Stato non debba investire risorse e posti letto per
permettere a chi lo desidera di vivere così la propria fine, sarebbe da condannare in quanto
irrispettoso della libertà. Lo stesso, però, vale per chi volesse costringere a questa accettazione della
sofferenza anche chi non vi rintraccia nessun disegno e nessuno scopo e intende solo farla cessare.
Io sono giunto alla conclusione che, a chi voglia davvero esercitare l'amore del prossimo, una cosa
si imponga: il rispetto. È quello che insegna la Bibbia che non condanna mai i suicidi nei diversi
casi che riporta, neppure Giuda. Anzi un suicida, Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo
Testamento tra i padri della fede. Nel discorso della montagna Gesù disse "non giudicare", e se c'è
una situazione nella quale hanno senso tali parole, questa è il momento in cui un essere umano
sceglie di porre fine alla sua vita.
Il compito della politica è di dare una legge ai cittadini in modo che possa essere la legge di tutti,
così che a ciascuno sia concesso di vivere la propria morte in conformità ai principi che ne hanno
guidato la vita. Occorre far sì che ogni persona possa vivere l'ultimo decisivo momento
dell'esistenza in modo conforme al suo credo e ai suoi valori: è questa la vera dignità. E in questa
prospettiva ricordo le seguenti parole del cardinal Martini: «È importante riconoscere che la
prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta
quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una
apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità
della persona… La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto».
Qual è invece il valore supremo e assoluto? È la dignità della vita che si compie come libertà di
poter decidere di sé, perché anche la scelta della morte naturale (quale spero di poter vivere io) è chiamata a diventare una morte culturale, cioè libera e consapevole. Ed è proprio per questo che è
necessario dare quanto prima ai cittadini italiani una legge che li rispetti nella loro libertà.




