«A 93 anni visito ancora. Mi manca non avere figli. Con mia moglie scomparsa c’è un dialogo senza fine»
“Corriere della Sera” del 10 agosto 2023
Nei giorni in cui Marc Augé, classe 1936, si congedava dalla scena terrena, Eugenio Borgna
festeggiava il compleanno nella sua casa di Borgomanero, attorniato dalle sorelle Maria Teresa,
Maria Emilia e Laura, 91, 87 e 85 anni. Lo psichiatra ha da tempo fatto propria la risposta che
l’antropologo francese dava a chi gli chiedeva l’età: «Posso dichiararla ma non ci credo». A 93 anni,
Borgna sembra avviato a inseguire l’ex collega Gillo Dorfles, il critico d’arte morto 40 giorni prima
di compierne 108: «Pochi sanno che era laureato in psichiatria. Lo vedo in clinica a Milano, mentre
ascolta i pazienti con straordinaria gentilezza. Fummo gli unici del ramo, credo, nominati cavalieri
di gran croce della Repubblica».
Nell’autore di Mitezza (Einaudi) uscito da poco, già direttore a Novara dell’unico manicomio
femminile d’Italia, stenti a scorgere il perito che inchiodò uno dei rapitori di Cristina Mazzotti,
uccisa e gettata in una discarica: il ’ndranghetista era stato dichiarato incapace di intendere e di
volere all’ospedale psichiatrico di Catanzaro.
La sua mitezza è innata?
«Sì. Non curi senza tenerezza, accoglienza, ascolto, consapevolezza dei tuoi limiti».
Il suo allievo Umberto Galimberti dice che lei ha passato la vita a combattere più gli psichiatri
che la follia.
«Umberto ha lavorato con me nell’ospedale psichiatrico di Novara. Lo assisteva l’intelligenza del
cuore. La sua partecipazione al destino degli altri è stata di grande aiuto per colleghi, infermiere,
suore. Le malattie mentali non esistono, non si possono dimostrare. I farmaci sono al massimo
adiuvanti. Conta molto di più interpretare i significati nascosti delle parole, le creature dell’anima».
Dà ragione a Galimberti.
«La sua è un’intuizione geniale, un po’ dilatata. Però è vero: mi sono sempre guardato da quelli che
parlano della schizofrenia come se fosse l’influenza. Hanno una concezione archeologica,
terrificante della sofferenza psichica, ne colgono solo gli aspetti biologici e organicistici. Negano il
mistero. Che invece ci circonda, come insegnava Dietrich Bonhoeffer, il teologo luterano ucciso nel
lager di Flossenbürg».
Si narra che il suo maestro Giovanni Enrico Morselli visitasse con il cane accanto per
tranquillizzare i pazienti.
«Una leggenda. Per fortuna le leggende sopravvivono».
Per quante ore riusciva ad ascoltare una sua ricoverata?
«Intere giornate».
Perché scelse psichiatria?
«Mi pareva una disciplina impossibile e misteriosa. Volevo aiutare gli altri senza opprimerli. Non
avevo la mano per la chirurgia: gli infermieri erano più bravi di me. E mi perseguitava un ricordo
lancinante. A 5 anni subii un intervento per una mastoidite, un’infezione oggi curabile con gli
antibiotici. Mi capita tuttora di riprovare la sofferenza della solitudine che mi avvolse in sala
operatoria».
Così ha preferito le parole.
«Chi vuol fare lo psichiatra dovrebbe leggere Giacomo Leopardi. Ma anche Emily Dickinson e
Giovanni Pascoli».
Evita il vocabolo «invidia».
«È un’emozione oscura, del tutto assente in chi soffre e si ammala. Un’ombra mai comparsa nella
mia vita».
Non si arrabbia, a volte?
«La collera non mi appartiene, la considero in forma estrema la gemella dell’invidia. Sono pulsioni
inumane, insopportabili. Fatico persino a nominarle».
So che si è curato da solo una forma di depressione.
«Anche di depressione parlo il meno possibile. Preferisco definirla malinconia, una ferita dello
spirito generata da ambiente e persone».
La psiche femminile si ammala in modo diverso?
«Manca l’alcolismo, tipico dei maschi. È una follia dolce, meno distruttiva. Le pazienti non erano
mai violente. Stavano in giardino, partecipavano. La peggiore sconfitta per lo psichiatra è il
suicidio, più frequente fra le donne».
Ne ha perso qualcuna?
«No. Basta saper interpretare i silenzi incomprensibili, diversi da malata a malata. Non si può curare
la fragilità solo con gli psicofarmaci».
E con l’elettroshock?
«L’ho rifiutato. Ho sempre e solo cercato di cogliere ciò che di umano resta in comportamenti
lontani dai miei».
Ha usato camicie di forza e legacci per caviglie e polsi?
«Mai. In questo momento ho negli occhi i mezzi di contenzione visti negli ospedali di grandi città e
provo la stessa angoscia di allora. La violenza della sicurezza maschera l’incapacità di ascoltare».
Visita ancora?
«Certo. La psichiatria è vita. E finché c’è vita, c’è ascolto».
Il mondo di oggi le piace?
«La stupirò: mi sento in consonanza. Lo vedo contrassegnato da fiumi di partecipazione umana,
anche se ha scambiato il bene per i beni materiali, e per questo vive nell’angoscia di perderli. Non
tornerei indietro».
Segue i social?
«Non so che cosa siano. Non guardo neanche la tv. Scrivo e basta. Dà senso all’esistenza, mi aiuta a
pensare».
Che cos’è la follia?
«Resta “morbus sine materia”. Per Clemens Brentano, scrittore tedesco dell’Ottocento, è la sorella
sfortunata della poesia. Concordo».
Ha capito da dove origina il «mysterium iniquitatis» di cui parlava Paolo di Tarso?
«Non dal cervello, bensì da quella che possiamo chiamare anima, cioè qualcosa di diverso, non
definibile in termini razionali. Nell’encefalo non troveremo mai le tracce biologiche della fragilità».
Suo padre aderì alla Resistenza, lasciando da soli una moglie e sei figli. Non fu in qualche
modo una pazzia?
«Militava nel Partito popolare. Ci abbandonò per servire il suo ideale politico. Nostra madre lo
accusò di egoismo. Io avevo 12 anni. I nazisti fecero irruzione di notte nella camera dove dormivo
con mio fratello. Conoscendo un po’ di tedesco, salutai gli ufficiali. Mi ringraziarono e se ne
andarono».
C’è un vuoto nella sua vita?
«Enorme. Mia moglie Milena, anche lei psichiatra, morì nel 2002, a 63 anni, per una malattia
autoimmune. Mi restano la sua grazia, il suo sorriso, il suo silenzio. È un dialogo che non finirà
mai».
Le mancano i figli?
«Sì. Il destino ha voluto che non diventassimo genitori. E al destino ci si arrende».
C’è qualcosa oltre la vita?
«Sono cresciuto in una famiglia profondamente cattolica. Coltivo la “spes contra spem” di san
Paolo, la speranza contro ogni speranza».
«Crede in Dio?», chiese un giornalista a Carl Gustav Jung ormai anziano. Lo psicoanalista
rispose: «Non ho bisogno di credere. So».
«Credo in ciò che sembra impossibile. Mi riconosco in Jung piuttosto che in Sigmund Freud. Il
genio del primo era inferiore, ma è servito di più alla psichiatria».
Questa società non sarà angosciata perché ha rimosso Dio dal proprio orizzonte?
«Dico di sì».
Lei prega?
«Non potrei non farlo dopo tutto quello che le ho detto. Seguo un cammino interiore che mi porta al
silenzio».
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