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Jannacci, Testori, Gaber. Le periferie del nostro cuore

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«La gente passa e va e la città non lo sa» (Un giorno come un altro di Giorgio Gaber, 1964). Vi ricordate la periferia? Quel luogo che tutti sembrano avere a cuore, ma nessuno negli occhi. Quella parola magica che impazza nelle campagne elettorali per poi scomparire, come una vecchia bici, quando non serve più. Al Meeting di Rimini, il 21 agosto, c’è stata una serata difficile da dimenticare. Non lo chiamo “evento” perché gli eventi sono come gli yogurt, scadono, ma l’incontro Jannacci, Testori, Gaber. Le periferie del nostro cuore è stato altro. «This morning was something» diceva Carver, bene, questa sera è stata qualcosa.

«Avete presente — dice Massimo Bernardini giornalista e volto televisivo Rai che guida la serata — quando visitate una città e qualcuno vi dice “mi raccomando eh, mica andrai in periferia”» beh Testori, Jannacci e Gaber non hanno dato ascolto a quel consiglio. Loro la periferia l’avevano scelta per cantarla, raccontarla, metterla in scena. Era il tempo del boom, Milano nel 1970 aveva poco meno di due milioni di abitanti, si allargava con la nascita di nuovi quartieri e le case di ringhiera erano la Monument Valley di quella periferia. Uno scrittore amico di Jannacci (Luciano Bianciardi de La vita agra) diceva «Milano non è una città, non è un paese, non è niente, è solo un grande macchina caotica senza cielo sopra e senza anima dentro, andrebbe minata».

«Per Testori, Jannacci e Gaber la faccenda era diversa — prosegue Bernardini — loro hanno amato Milano e le periferie, senza nasconderne i vuoti e le contraddizioni che esse contenevano». Riconoscevano anzi in quei vuoti il senso più autentico del loro cercare. «Quando ho detto che sono nato nel 1923 a Novate — precisava Giovanni Testori — cioè a dire alla periferia di Milano dove ho sempre vissuto e dove spero sino alla fine di vivere, ho detto tutto», ricorda Bernardini prima di dare la parola a Giuseppe Frangi, giornalista, responsabile dell’associazione culturale Casa Testori.

«Testori — ricorda Frangi — da subito si butta nella cultura umanistica. Novate è un piccolo paese alle porte di Milano e la traiettoria che Testori faceva è la periferia che lui ha raccontato nel ciclo di romanzi I segreti di Milano. I romanzi li scriveva o nei bar o nei tram, “questi personaggi sono sheakespeariani — diceva — io voglio raccontare le periferie come Sheakespeare ha scritto Amleto”». Conclude Frangi: «Sbalordiva la sua capacità, sia pur da borghese, di farsi amica di questa gente senza mai darne una visione patetica, accogliendo il dramma e la completezza dei personaggi».

Tale sguardo e la sua umanità promanano grazie a Michele Maccagno (attore) che legge alcune pagine tratte da Il fabbricone, storia di un edificio a ringhiera e delle sue famiglie. Fra queste, la lettura di Maccagno tocca la storia di Sandrino, che non riuscendo più a tirar avanti in quel modo accetta le lusinghe di un magnaccia e si mette a fare marchette, lasciando il “fabbricone”. Nelle parole di Sandrino esce, violenta, la malinconia del “fabbricone” stesso, il suo tentativo vano di tornare lì, il suo non farcela e quel finale che, nel rispondere a una signora della Milano bene, ce lo rivela innocente per vocazione e destino «si poggiò la mano sui pantaloni, la dove teneva gonfio più di foto che di soldi il portafogli».

La presenza di Gaber sul palco passa dalla sua storia, dal suo esordio per Ricordi, dall’amicizia con Enzo e dagli incontri che, some sempre, sono il crocevia della fortuna. Gaber per esempio incontra Umberto Simonetta, scrittore e autore per teatro di rivista e tv che descriveva se stesso così: «Sono uno scrittore minore lombardo del ventesimo secolo».

Oltre a scrivere Una fetta di limone per Gaber e Jannacci, Simonetta è dietro quella carrellata di personaggi della periferia che Gaber fa suoi La ballata del Cerruti, per fare un esempio, e allo stesso tempo è ispiratore di quello sguardo al niente, quello specchio che le sere diventano se la tua vita non c’è che era, per esempio Le nostre serate. Uno sguardo implacabile e umano al nostro tempo, che Gaber saprà poi trasformare in racconto sul palco attraverso il suo teatro canzone.

Tocca alla bravissima Andrea Mirò, cantautrice da tempo al lavoro sull’opera di Gaber, regalarci con tocco da fuoriclasse lo spaesamento di Le nostre serate. «Molti mi dicono sei fortunato / tu che hai trovato un lavoro sicuro / bello tranquillo interessante / e che ti rende decentemente. // Io penso alle nostre serate stupide e vuote / ti passo a prendere cosa facciamo / che film vediamo no l’ho già visto / tutto previsto. // Molti mi dicono non hai diritto / di lamentarti ti puoi permettere / qualche parentesi qualche evasione / tu che hai un lavoro di soddisfazione. // Io penso alle nostre serate stupide e vuote / vuoi bere qualcosa / grazie ho già preso il caffè su in casa / che cosa vuoi, niente ti annoi».

«Eran due disgraziati, però che disgraziati» ci trafigge Paolo Jannacci, figlio di Enzo. Ci racconta di come, negli anni Ottanta, suo papà e Gaber tornarono insieme per prendersi questa “vacanza” (un mini album), mini album per prender fiato nella loro vita. Al Famedio sulla tomba di Enzo c’è scritto Enzo Jannacci medico e artista. «La sintesi di quello che è stato mio padre e quello che voleva le gente ricordasse di lui è lì. Un medico, un artista. La sua vocazione erano gli altri, come medico, curare era la cosa che lo emozionava di più. Sentirsi un medico e aiutare chi cercava aiuto, chi viveva nelle periferie e non aveva l’amico medico che lo aiutava». E curandoli li osservava, ne faceva proprie le vite, i tic, i sogni.

«Le idee nascevano in periferia — dice Paolo — in centro ci arrivavi con le cose fatte». Arriva il momento di riascoltarlo Enzo, tramite la voce di Paolo. L’esecuzione di El purtava i scarp del tennis convince tutti al silenzio. La storia di questo barbone all’idroscalo, uno che «pareva nisciun» e che nell’arco di un attimo s’innamora e muore.

Mentre Paolo restituisce a suo padre il favore di quella pena per gli altri, chi assiste non sa dove guardare, i nodi alla gola sono telefonate che ci trovano, per una volta, in casa. E qualcosa di noi risponde. «Che scusé, ma mi vöri cüntà / d’un me amìs che ‘l era andà a fa ‘l bagn; / sül stradùn per andare a l’Idroscalo, / ‘l era lì, e l’amore lo colpì. // El purtava i scarp del tennis, / el parlava de per lü, / rincorreva già da tempo / un bel sogno d’amore». Gh’han tucàa, che pareva che ‘l durmiva è la frase con la quale Enzo salva l’ultimo attimo di uno vita che per gli altri era e restava roba de barbun. «L’han truà sota a ‘n mücc de cartùn, / gh’han guardàa el pareva nisùn, / gh’han tucàa, che pareva che ‘l durmiva: / “Lasa sta, chè l’è ròba de barbùn”».

Jannacci ha guardato a questi diseredati per tutta la vita — dice Bernardini e domanda a Giorgio Vittadini, amico di Enzo e salito sul palco per il finale — ma perché Jannacci cercava proprio loro? Perché li vedeva — risponde Vittadini — noi no, lui sì. «Perché la ferita e la carezza — diceva Jannacci — sono la stessa cosa».

di CRISTIANO GOVERNA

Fonte: L'Osservatore Romano



Giuseppe Frangi, Giornalista, Casa Testori Associazione Culturale;
Paolo Jannacci, Musicista.
Modera Massimo Bernardini, Giornalista.
Con la performance di Michele Maccagno, Attore e Andrea Mirò, Musicista.

Tre anniversari legano questi protagonisti della vita milanese: i 100 anni dalla nascita di Testori, i 20 e i 10 dalla morte rispettivamente di Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Ma c’è un altro fattore importante che lega le loro avventure, sia dal punto di vista umano che culturale: hanno vissuto da dentro e dato voce alle tante periferie di Milano. Per tutti si è trattato di un’affinità esistenziale e non ideologica, secondo un approccio che oggi ritroviamo tanto di frequente nelle parole di papa Francesco.
Giuseppe Frangi, Enzo Gentile e Paolo Jannacci, moderati da Massimo Bernardini portano la testimonianza e i ricordi delle loro frequentazioni e amicizie con Jannacci, Gaber e Testori.
Le voci di Andrea Mirò, cantante, e di Michele Maccagno, attore, rendono presenti canzoni e parole di quelle tre grandi anime di Milano.

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