Massimo Recalcati "La metamorfosi sulla via di Damasco"
La Repubblica, 3 agosto 2023
Due studi recentissimi prolungano la fortuna contemporanea di Paolo di Tarso e della sua opera. Si
tratta di Vincenzo Vitiello, Nel silenzio del padre (Salerno Editrice) e Metamorfosi necessaria di JoséTolentino de Mendoça (Vita e pensiero). Essi si aggiungono a una già ricca serie di lavori apparsi
all’inizio del nuovo secolo che hanno visto impegnati autori del calibro di Badiou, Agamben e Zizek,
per citare solo i più noti.
Ma cosa significa rileggere oggi San Paolo? Innanzitutto ripensare la figura di Gesù non tanto come
una figura storica o come un personaggio letterario, ma come evento. Se c’è, infatti, un tema cruciale
che viene ripreso da questi due testi è il seguente: non si può comprendere la parola di Gesù se non a
partire dalla sua incidenza su chi la ascolta. Per questo Paolo assimila Gesù a un evento. Ma cos’è un
evento? È qualcosa che scompagina le leggi consuete del mondo, è un taglio nel loro ordine, una
frattura, un trauma. Più di preciso, per Paolo l’“evento Gesù” è stato innanzitutto un incontro.
Questo incontro precede il pensiero, precede la traduzione militante del messaggio cristiano, precede
la vita stessa di Paolo perché la istituisce come nuova. Il libro di Tolentino dedica pagine toccanti a
questo evento che la leggenda racconta come una caduta di cavallo di Saul, persecutore accanito dei
cristiani, e della perdita della sua vista. Accecamento dell’Ego, destituzione del suo prestigio, caduta
con la faccia a terra. Passaggio brusco da Saul – che nel suo etimo significa “il più grande” – a Paolo
– che nel suo etimo significa “il più piccolo”. Tolentino lo descrive come un “drammatico
contromano”.
Ma è solo dall’incontro con l’evento-Cristo che Paolo diventa Paolo. È, più in generale, solo da questo
incontro che il cristiano diventa cristiano. Il credere sorge, dunque, da una esperienza di metamorfosi.
Prima è l’incontro e poi la fede, non il contrario. È quello che scrive Vitiello quando parla della
sovversione cristiana del rapporto tra uomo e Dio: non dall’uomo a Dio, ma da Dio all’uomo. Paolo
lo afferma nella Lettera ai Filippesi evocando la kenosis di Dio: Gesù è l’esito dello svuotamento
(abbassamento, indebolimento) di Dio, del suo farsi uomo. Il Verbo, come recita il prologo del
Vangelo di Giovanni, si è fatto carne. Nondimeno, compito dell’uomo, per Paolo, resta quello di
vivere nel nome della Legge perché il suo rispetto per la Torah non viene mai meno.
Il suo martirio, come ricorda Vitiello, rovescia quello di Antigone. Se l’eroina sofoclea, col suo gesto
di rivolta nei confronti della Legge, intende denunciarne il carattere disumano, Paolo assume la
propria morte non per negare ma per istituire la Legge. Prima dell’incontro con Cristo – prima del
tempo della sua conversione – egli era un esecutore irreprensibile della Legge. Ebreo, figlio di ebrei,
il suo Dio è il Dio dell’Antica alleanza che ha parlato per via dei profeti, dunque, come si descrive
nella prima Lettera ai Galati, «ero molto più zelante delle mie stesse tradizioni patrie». Poi accade
l’evento dell’incontro che sposta irreversibilmente la direzione della propria vita e con essa il senso
stesso della Legge. In gioco è una esperienza mistica che ruota attorno a una chiamata.
La conversione provocata dalla chiamata, come ricorda Tolentino, attraverso le parole di Paolo stesso,
si differenzia sia dalla domanda greca di sapere, sia da quella giudea dei “segni”. L’universo
simbolico del sapere e quello immaginario dei segni vengono disarticolati dalla centralità che Paolo
attribuisce alla dimensione reale dell’incontro, dell’evento-Cristo. Si tratta di una metamorfosi,
dell’acquisizione di una nuova forma di vita. Per Tolentino la parola chiave alla quale apre la
conversione è speranza: la speranza che la morte non sia l’ultima parola sulla vita, la speranza che
s’incarna nella resurrezione di Cristo, nel dare morte alla morte. Ma questa speranza non assume mai
le forme della rassicurazione o del rifugio. Sarà questa invece la lettura freudiana della religione come
fuga dalla realtà, regressione infantile della vita, rifiuto della sua asprezza. Nella speranza, come viene
sostenuta da Paolo, è tutto il contrario.
La fede non è affatto rifugio, ma tribolazione, non è rassicurazione ma angoscia, non è accasamento
ma esodo. È quello che ha sottolineato anche Heidegger nella sua lettura di Paolo: «per la vita cristiana
– scrive – non c’è alcuna sicurezza».
È il valore che Paolo nella Lettera ai romani riconosce alla testimonianza di Abramo. La speranza
che egli incarna è “la speranza contro ogni speranza”, la “speranza che non vede” poiché se vedesse
quello che spera, scrive Paolo, come potrebbe sperarlo?
Più di preciso, la lettura di Vitiello fa emergere come l’esperienza paolina della conversione implichi
non solo una trasformazione del soggetto, ma anche del senso del tempo. L’evento del Messia
modifica il suo ordine: il passato è morto, l’età del peccato e della morte è scaduta per sempre;
l’avvenire si apre come giorno della resurrezione e della vita eterna.
È la differenza profonda tra la concezione ebraica del tempo e quella cristiana: nella cristologia
paolina l’adesso – il “grande Oggi” di Rosenzweig –, è il Kairos rivelato dall’evento-Cristo. «L’ora
viene, ed è adesso», recita il Vangelo di Giovanni: la salvezza del Regno non è domani, ma adesso,
accade oggi e non in un futuro sempre a venire. Nessuno più di Paolo ha avuto l’idea del Messia come
evento, incontro, contingenza che si rivela “adesso”, nella vita individuale come in quella collettiva.
È quello che Kierkegaard indicava come compito di ogni cristiano: essere contemporaneo a Cristo.
Per questo cristianesimo e gnosticismo risultano, come fa notare Vitiello, radicalmente eterogeni. Se
il figlio di Dio si è fatto carne è perché la carne di cui si è fatto onora il mondo, è “carne sacra”,
ricorda ancora giustamente Vitiello, come sacro è il mondo.