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Pierangelo Sequeri - La pazienza dell'ascolto crea una Chiesa "sinodale"

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Avvenire

martedì 25 ottobre 2025

Il Documento di sintesi è un inventario di esuberante complessità, frutto di un processo lungo. L'intelligenza della fede e l'esperienza possono incontrarsi per immaginare nuovi percorsi.

L’importante è uscirne vivi. Il “Documento di Sintesi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia” è un inventario di esuberante complessità: acquisito semplicemente come un documento programmatico può provocare un certo stordimento e un senso di impotenza. È necessario uscire subito da questo fraintendimento. Un inventario enuncia un repertorio di temi che devono essere sviscerati, non è ancora la formulazione di un itinerario

La forma dell’inventario, che alleggerisce la trama logica dei nessi a favore dell’elenco – sia pure “ragionato” – dei contenuti, corrisponde appunto alla forma di “ascolto”: che è una cifra fondativa del processo destinato a creare lo spazio e l’abitudine di una Chiesa “sinodale”. In questo senso, fin dall’inizio, la regìa magisteriale dei testi che dovevano orientare l’apertura sinodale delle comunità non ha posto il suo baricentro su una visione ecclesiologica teoricamente coerente nella quale trovare il modo di iscrivere la mentalità e la prassi della fede. L’obiettivo – certamente giustificato – era quello di far emergere concettualità e sentimento della visione cristiana che si possono riconoscere nel vissuto effettivo delle comunità e anche nell’opinione diffusa di ciò che il cristianesimo rappresenta: vissuto e opinione che la teologia strutturata può arrivare a trascurare come interlocutore meritevole di attenzione e come espressione di un senso della fede mortificato dalla ristrettezza delle formule. 

Questa utile distinzione, che è stata strenuamente cercata come chiave di apertura di un ascolto veramente “integrale” del popolo di Dio e della comunità umana, ma anche dello stesso Spirito Santo e della Parola di Dio, ha naturalmente il suo punto di caduta. Viene il momento, infatti, in cui l’intelligenza della fede e l’ascolto dell’esperienza devono incontrarsi, per venire a una qualche sintesi. La teologia offre al discorso cristiano (e alla pratica corrispondente) una struttura logica, che lo mette in grado di farsi interlocutore rispettoso della tradizione credente e lievito eccitante della cultura ambiente. L’ascolto, invece, cerca di sottrarre il discorso cristiano ai vincoli di una struttura pre-ordinata, per restituirlo alla spontaneità del suo vissuto interiore (sensus fidei) e alla risonanza spirituale che esso è in grado di suscitare: non soltanto nei credenti, ma anche in ogni altro interlocutore. È evidente che i due – la teologia e l’ascolto, per dir così – hanno bisogno l’una dell’altro: ognuno dei due è predisposto a contenere gli eccessi dell’altro, scongiurando la loro separazione o, addirittura, la loro contrapposizione. Il fatto che questo sia il momento dell’euforia dell’ascolto è indiscutibile: e anche apprezzabile. 

Una teologia ignara del sensus fidei fidelium ha per troppo tempo spadroneggiato sulla coscienza credente (e ancora spadroneggia) traendo in inganno molti (Mt 24, 4-5; 2 Tess 2, 10). Però, l’ascolto che raccoglie con sterile puntiglio l’inventario di pensieri della fede che devono ancora cercare il loro logos, facendo valere l’inventario degli interrogativi come un repertorio di riposte che devono semplicemente essere messe ai voti, oltrepassa il suo senso e raccoglie zizzania per l’ideologia. Con il “Documento di sintesi” (e anche di giusto compromesso: di tutto abbiamo bisogno, oggi, ma non di una guerra di religione in casa), la soglia di un ascolto tenuto a cauta distanza dalla teologia mi pare toccata. Non credo che un Documento sulla sinodalità, giustamente polarizzato sull’ascolto, possa andare più avanti di così. Il tempo è così venuto per la pazienza del pensiero, che si salda con la spregiudicatezza dell’ascolto. Si tratta ora di sapere se per la Chiesa è venuto il tempo di questa pazienza del pensiero, che deve offrire alla necessaria spregiudicatezza dell’ascolto il solco lungo il quale è saggio seminare e necessario far lievitare. Il nervosismo dell’evangelizzazione non è buon consigliere. E nel cristianesimo, che gratuitamente ha ricevuto per dare gratuitamente, non c’è mai tempo di saldi. 

Vorrei chiudere questo appunto con una nota di piacevole sorpresa, che in certo modo riguarda proprio la potenza dei risvolti culturali di questa alleanza di teologia (pensiero) e ascolto (testimonianza) che fa capolino nel testo, proprio nelle prime battute. L’apprezzamento espresso per i percorsi sperimentati nei “cantieri di Betania” indica esplicitamente l’effetto di apertura di «spazi di riflessione e di ricerca pastorale in ambiti molteplici della vita culturale e sociale – della scuola al lavoro, dall’arte allo sport, dall’imprenditoria alle professioni, dal volontariato all’impegno politico, fino ai luoghi più segnati dall’emarginazione, come le carceri e le situazioni di disabilità. In queste esperienze si è espressa una reale disponibilità al discernimento, per cercare non solo nuove idee ma anche le condizioni concrete che rendano praticabili i desideri emersi. È cresciuta così una sensibilità che intreccia e fa dialogare dimensione pastorale, riflessione teologica e competenze scientifiche e professionali, a servizio di un discernimento comune e delle decisioni ecclesiali per un rinnovato slancio missionario» (n.6). 

Meglio non si potrebbe esprimere l’immagine di un paradigma dell’intelligenza teologica, capace di normale dimestichezza con arti e mestieri della vita, che ancora non abbiamo. Proprio quello che servirebbe, per incominciare a offrire un nuovo ordine logico alla sensibilità e alla testimonianza credente della Chiesa sinodale. L’operazione, adesso, suona ancora un po’ pesante, ma di questa pesantezza dovrà liberarsi al più presto. Perché “i piedi” degli evangelizzatori, sono “allegri” (Isaia 52, 7-10).


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