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Luciano Manicardi “Dall’io al noi”

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22 Ottobre 2025

All’interno di ciascuna chiesa e tra le chiese occorre sempre passare dall’io al noi, e imparare a pensare «con» l’altra chiesa, non senza o contro o davanti o sopra o prima di essa.

Papa Francesco ha ricordato che durante il Giubileo sarebbe caduta la ricorrenza dei «1.700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea», e ha sottolineato che «Nicea rappresenta un invito a tutte le chiese e comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile» (Spes non confundit 17). In particolare, ha sottolineato l’importanza del riunirsi, della sinodalità, che fin dal Nuovo Testamento è la pratica ecclesiale della comunione: «L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza alla forma sinodale». E il documento finale del Sinodo dei vescovi ribadisce che «il dialogo ecumenico è fondamentale per sviluppare la comprensione della sinodalità e dell’unità della Chiesa» (Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione 138). Una prima lezione «ecumenica» che ci viene da Nicea riguarda dunque la sinodalità, sia nel senso generalmente accolto di «cammino fatto insieme», in derivazione da synodía, «gruppo di persone che fanno strada insieme», sia nel senso di «varcare la stessa soglia», e quindi «riunirsi», in derivazione da syn-ὀdos, con ὀdos con lo spirito dolce, che nel greco classico indica la soglia della casa. 

Nelle chiese e tra le chiese sono presenti differenze sul piano dottrinale e disciplinare, liturgico e spirituale, si verificano tensioni, conflitti, a volte strappi e lacerazioni. Il riunirsi per discutere le differenti posizioni, per conoscersi, per appianare le divergenze, per ricucire gli strappi, è la via ecclesiale per perseguire, costruire, sanare la comunione. E anzitutto per creare relazioni e passare dal sospetto alla fiducia. A Nicea (certo, per convocazione dell’imperatore) si verificò il convergere in un’unica assemblea di capi di chiese provenienti da tutto l’impero, anche se i vescovi occidentali furono pochi rispetto agli orientali. E lì si incontrarono e scontrarono tradizioni diverse che prima raramente avevano avuto occasione di interagire. 

Più che per i risultati raggiunti (significativi ma non risolutivi), Nicea è importante per la modalità dell’evento stesso «che apre la strada all’esperienza dei concili detti ecumenici» (Fabio Ruggiero). Il conflitto su una questione dottrinale che, nella chiesa di Alessandria, divideva il vescovo Alessandro dal presbitero Ario, fu portato a Nicea per giungere a una soluzione. Ovvero, è meglio scontrarsi parlandosi che lasciare che le cose precipitino: le differenze che dividono i cristiani vanno affrontate riunendosi, ascoltandosi, esponendo le proprie posizioni, discutendo per giungere a una decisione. Comune ascolto, comune discussione, comune consultazione, comune deliberazione: ecco il metodo sinodale. Tommaso d’Aquino dirà che lo Spirito agisce «nelle assemblee»: il dialogo è la via spirituale per cercare un consenso tra i cristiani. 

Ma sinodalità è anche camminare e non stancarsi di riprendere il cammino. La fine del Concilio di Nicea non significò la fine dei problemi: la condanna della posizione di Ario non chiuse la crisi ariana e l’arianesimo si diffuse ancora per tutto il V secolo; il simbolo di Nicea fu ripreso e completato nel Concilio di Costantinopoli del 381; la data della Pasqua decisa a Nicea non chiuse la querelle che è ancora oggi una questione ecumenica aperta. Ovvero, la fine di un Concilio è l’inizio della fase della sua ricezione. Il cammino sinodale non termina con la chiusura dei lavori assembleari e con la stesura di un documento. Anche decisioni prese sono rimesse in discussione dagli eventi e, nel frattempo, i cambiamenti storici possono richiedere adattamenti e correzioni delle stesse. 

Inoltre, il riunirsi-camminare insieme esige la costruzione del soggetto plurale «noi». La formulazione del simbolo di Nicea si apre con la confessione di fede al plurale: Crediamo. All’interno di ciascuna chiesa e tra le chiese occorre sempre passare dall’io al noi, e imparare a pensare con l’altro e con l’altra chiesa, non senza o contro o davanti o sopra o prima. In quanto simbolo universale sottoscritto da tutti (o quasi) i vescovi, il simbolo di fede niceno è una novità. Anche un simbolo di fede è opera umana, è debitore di un periodo storico, di una cultura e di una lingua particolari, è forzatamente datato. E l’espressione linguistica del mistero non è mai il mistero stesso: Dio non è la sua definizione linguistica. Se a Nicea si risolse la questione posta da Ario circa la natura del Figlio ricorrendo al termine non scritturistico homoousios («della stessa sostanza»), cioè con un’opera di inculturazione, questo compito interpella ancora oggi le chiese tutte chiamate a discernere i segni dei tempi e ad annunciare Gesù Cristo agli uomini e alle donne del XXI secolo. Perché il criterio autentico della Tradizione non è nel passato, ma nel futuro, è escatologico, è il Regno di Dio verso cui tutte le chiese sono in cammino.

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