Enzo Bianchi «La Chiesa non è più profetica. E il mondo affonda nel silenzio. Dio sta con i ribelli se lottano per la giustizia»
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14 ottobre 2025
intervista di Francesca Angeleri
Enzo Bianchi sarà a «Torino Spiritualità»: «La sfida è essere giusti in un mondo ingiusto. È il nostro compito, anche se sembra disperato».
Gli hanno proposto di tenere una lectio sul Qohelet, uno dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. «È un libro biblico molto particolare, si presta a tante interpretazioni», dice Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose e Casa della Madia, amatissimo dal pubblico di Torino Spiritualità (e non solo) che lo ospita sabato alle 10 nella Sala Uno del Cinema Massimo.
Cosa riporta il Qohelet?
«L’uomo, dice, può solo vivere, mangiare, bere, amare, niente di più. Dall’altro lato, qua e là, ci sono sprazzi di luce, come pungiglioni. È come una sfida impossibile: essere giusti in un mondo ingiusto. È il nostro compito, anche se sembra disperato».
Lei è amatissimo dalla gente.
«Le persone mi vogliono molto bene. Qualche volta sono perfino imbarazzato: vogliono toccarmi, chiedono la benedizione. Ho paura di sembrare una specie di santone. C’è un affetto reale: mi scrivono, mi mandano email e messaggi. Mi dispiace non riuscire a rispondere alla maggior parte delle lettere che ricevo: sono centinaia sulla mia scrivania».
Cosa le scrivono?
«Le loro sofferenze. Sono persone che si separano, che hanno figli disabili, che hanno problemi d’identità sessuale, persone sole. Sono i poveri della terra. Quando cammino per strada capita spesso che un mendicante mi si avvicini e cominci a parlarmi, a chiedermi qualcosa, a stare con me anche se non sa chi sono. È sempre stato così. C’è chi ride e mi dice: “Sei di natura un mendicante, uno zingaro come loro”. Può darsi. Certo sento grande simpatia per chi vive ai margini della società».
Si sarebbe aspettato che, nel 2025, gli ultimi sarebbero stati ancora più ultimi?
«Non fino a questo punto. Vedere una lotta fratricida in Ucraina, e un popolo massacrato da un esercito in una guerra, che non è una guerra ma un genocidio, una carneficina, non me lo sarei aspettato. Avevo visto da vicino il dramma del Burundi e del Ruanda, ero presente in quei giorni, quindi so che cosa può fare l’uomo. Ma fino a questo punto no. L’Occidente si è svegliato troppo tardi».
Perché?
«Nella nostra società prevale l’individualismo. Non c’è più il senso della corresponsabilità. Speravo che i giovani si risvegliassero prima. Anche perché, all’inizio di questo secolo, avevano dato segni di protesta».
A che momento si riferisce?
«Penso a Genova. Allora c’era ancora il coraggio di protestare per un mondo più abitabile, per una vita non calpestata dalle ragioni economiche. Poi tutto si è affievolito, spento, come tante realtà del nostro tempo. E mi aspettavo anche dalla Chiesa un giudizio, ben prima. Non basta dire: “Preghiamo per la pace” o “Cerchiamo di vivere la pace”. Sono parole buone, efficaci sul piano della fede, ma la Chiesa a un certo punto deve essere profetica. Deve dire chi è l’aggressore, chi compie il male. Se non è capace di questo, fa un servizio religioso e umano, ma non profetico».
Spiritualmente, siamo pervasi dal «male»?
«Ho 82 anni, è doloroso pensare di andarmene da un mondo così, dopo essere stato giovane negli anni Sessanta pervasi di speranza… Pensavamo di cambiare tutto. Adesso devo fare di tutto perché il mondo non cambi me. Rischiamo una guerra mondiale. In qualche misura è già iniziata, come diceva Papa Francesco. Non è atomica, ma combattuta con mezzi finanziari che impoveriscono e portano alla disperazione milioni di uomini, soprattutto dell’emisfero Sud. Saranno obbligati a ribellarsi».
Dio è con i ribelli?
«Sì, se sono ribelli per rivendicare la giustizia».
E il diavolo, dov’è?
«Il diavolo è in noi, nella nostra cattiveria. È quando pensiamo solo a noi stessi e non riconosciamo che l’altro merita lo stesso rispetto e dignità. L’altro è uno che dobbiamo amare, perché è fragile come noi e trova nell’amore la salvezza».