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Gianfranco Ravasi «Il dialogo è ancora possibile, anche quando sembra inutile: si può restare umani»

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intervista a Gianfranco Ravasi
a cura di Francesca Angeleri

«Il dialogo è ancora possibile, anche quando sembra inutile. Bisogna continuare a essere una spina nel fianco, a dire che si può restare umani.

La parola “incontro” è formata dalla preposizione “in”, andare verso, e dall’avverbio “contro”. Il dialogo riconosce l’altro, anche nella differenza. È questo che dobbiamo fare, con gli immigrati per esempio: non adottare lo scontro, né fermarsi alla semplice multiculturalità, ma cercare l’interculturalità. Dialogare significa costruire un elemento comune. È più faticoso, ma più vero». Parole «sante». A pronunciarle è Sua Eminenza Cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, sabato 11 ottobre, è stato alla Fondazione MirafioreSerralunga d’Alba con Il cortile dei gentili — Fondazione da lui istituita e guidata per promuovere il dialogo tra credenti e non credenti — nell’incontro Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Alla tavola del mondo. Con Oscar Farinetti, il professor Franco Locatelli presidente del Consiglio Superiore di Sanità, la vitivinicoltrice Carlotta Rinaldi, lo chef Ugo Alciati.

Eminenza, oggi dialogare pare non solo impossibile ma secondario.
«Sembra una lotta impari. E proprio per questo serve il dialogo. È la via più difficile, il sentiero d’altura, come lo chiamo io. È faticoso ma necessario. Pensiamo a situazioni come la carneficina di Gaza: lì il dialogo è quasi inattuabile, eppure proprio per questo va tentato. Anche solo come testimonianza».

Lei parla di interculturalità, ma la società si chiude sempre più. Accade così anche nella Chiesa?
«Sì, purtroppo. Non abbiamo più grandi voci. Una volta c’erano figure come Francesco che scuotevano le coscienze. Oggi mancano. Non perché non ci siano persone di valore, ma perché non siamo più incisivi. Forse è un segno dei tempi: viviamo in una fase di indifferenza, di disattenzione».

Da dove nasce questa indifferenza?
«Da tre grandi fattori. Il primo è lo sviluppo impressionante della comunicazione; il secondo è la potenza della tecnica — l’intelligenza artificiale, le neuroscienze, la genetica — che ci rende quasi onnipotenti; il terzo è che l’indifferenza è diventata una malattia, ci siamo anestetizzati. Per questo dico che, almeno, le tragedie come Gaza scuotono questa apatia».

Che lettura dà delle piazze piene, delle manifestazioni di questi ultimi giorni?
«Sono un sussulto positivo. Al netto dei facinorosi, c’è in quelle piazze un desiderio di umanità, di reazione al grigiore. È una testimonianza, anche se non sempre profonda o continua. Mi ricorda, per certi versi, le processioni di una volta: il popolo che cammina, canta, condivide la propria fede. Oggi la processione non c’è più, ma restano forme nuove di partecipazione. 
Dobbiamo imparare a tenerle vive».

Ha sbagliato la Flotilla a non accettare la proposta del Patriarcato Latino?
«È difficile dirlo. Quando si vuole dare forza a un gesto simbolico, si tende ad andare fino in fondo. Credo che avrebbero potuto fare entrambe le cose: accettare di portare una parte degli aiuti tramite la Chiesa e proseguire comunque la missione simbolica».

Nei giovani, lei cosa vede?
«Nel Cortile dei Gentili abbiamo una consulta giovanile con 40 ragazzi, metà credenti e metà non credenti. Mi interessano molto, soprattutto per il loro linguaggio: parlano un’altra lingua, quella dei social, ma anche della musica. Se li si stimola, ascoltano eccome. Nella loro grande massa, sono però sostanzialmente vuoti».

Perché?
«Noi adulti non siamo stati capaci di dare continuità. Si sono dispersi, trascinati dal branco. Ma c’è una minoranza straordinaria, fecondatrice, che può aiutarli a ritrovare senso. Dovrebbero essere loro a parlare ai coetanei».

Si sentono abbandonati?
«È così. Pensiamo alla scuola, alle famiglie, a quante fatiche devono affrontare. Molti dei ragazzi della nostra consulta non hanno quasi una famiglia. Nonostante tutto, io credo che oggi serva opporre alla paura un po’ più di speranza. Io ho sempre rischiato su questo».

Cosa intende con rischiare?
«Uscire dai recinti. Quando ero a capo del Pontificio Consiglio della Cultura, ho sempre cercato di entrare in campi non convenzionali: l’arte contemporanea, lo sport, la musica. Andare, conoscere, comprendere. È un impegno che deve riguardare la cultura, la scuola, la famiglia e la Chiesa. Tutti».

Lei è teologo ed ebraista. Come analizza l’attuale momento di Israele?
«Direi che non è tanto una crisi della loro cultura, che resta una delle più alte e generative, quanto della loro politica, che è degenerata. È diventata sproporzionata, fondamentalista. Anche ammettendo il diritto alla difesa, si è arrivati a una violenza che non trova più misura. Ci sono ancora energie critiche, intellettuali e autocritiche, ma restano minoritarie. È una degenerazione politica e religiosa insieme».

Il cibo di questo appuntamento che significato ha?
«È linguaggio, incontro, condivisione. Carlin Petrini era amico di Papa Francesco».



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