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Vito Mancuso “La democrazia nasce da dentro: serve un lavoro interiore per tornare al dialogo”

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intervista a Vito Mancuso
a cura di Bianca Senatore

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino sta accadendo, nel mondo, qualcosa di inaspettato per chi ha creduto che i valori della democrazia, del dialogo, della pace e della nonviolenza fossero garantiti.

Invece, le nuove immagini delle autocrazie del XXI secolo, che perseguitano e mettono a tacere ogni voce differente, così come il clima di odio e di contrapposizione che si percepisce sulla scena pubblica, ci fanno capire come si sta perdendo il gusto e il richiamo ai fondamenti della democrazia. Si apre così la carta della Democrazia che Gabriele Nissim presenterà al prossimo GariwoNetwork. Proprio su questa carta, sulla democrazia, la sua crisi e gli strumenti per ricostruirla, abbiamo deciso di avviare una discussione e un dialogo con varie personalità. Oggi ne parliamo con il teologo, filosofo e scrittore Vito Mancuso

Sembra che la gente abbia perso il gusto del dialogo. Ama contrapporsi, come se ognuno fosse portatore della verità assoluta. Secondo lei come possiamo ricostruire la dimensione del dialogo?  

Anzitutto capendo. Il primo fondamentale compito della mente, di fronte a ogni situazione è discernere e andare a individuare le radici dei fenomeni. Prima di capire come ricostruire il dialogo, quindi, dobbiamo comprendere cosa ha causato questo stato di cose. E la mia risposta è la paura. Non paura di una cosa specifica, di un evento particolare, ma di qualcosa di più profondo: quel timore indistinto che si prova di fronte al futuro ignoto. Per me è questo ciò che contrassegna la psiche contemporanea: uno spaesamento, un'incertezza, un vuoto di prospettive positive. Insomma, uno spavento, siamo tutti profondamente terrorizzati. E penso che proprio questo generi un'ansia persistente. È come avvertire una specie di basso persistente, come il basso continuo della musica di Bach. Ecco, qui ci sono questi tamburi che continuamente battono dentro di noi e sono tamburi di guerra, che ci fanno risuonare dentro il vuoto, il nulla … 

Proprio questa sensazione genera il desiderio di aggrapparsi a qualche e ciascuno si aggrappa a quello che sente più vicino a sé: l'identità etnica, la religione, quelle cose, che sono più radicali e radicate e, quindi, forse anche più primitive. È da qui che nasce l'incapacità di dialogare con il diverso da sé, perché il dialogo presuppone la dualità e l'apertura all'altro, al diverso. Per discutere serve mettersi in discussione, ma se io sono arroccato dentro di me, perché ho veramente paura del futuro, e la mia psiche è chiusa, è del tutto evidente che non c'è dialogo e, al contrario, c'è la contrapposizione. A questo punto, se è vero che questo è il problema, come rispondere alla sua domanda? Per ricostruire il dialogo, l’unica soluzione che intravedo è di tipo individuale. Cioè, è necessario che ciascuno effettivamente faccia un lavoro vero su sé stesso e per capire profondamente la propria interiorità, la propria individualità. Per esseri consapevoli su che cosa radica la nostra certezza, la sicurezza interiore. La mia ricetta, pur consapevole della difficoltà, del fatto che è per pochi, si basa sul lavoro interiore. Quando uno lavora onestamente su sé stesso, andando a chiedere che cosa credo veramente? Su che cosa mi appoggio, qual è il mio punto su cui fare leva per sollevarmi? Quando uno fa questo lavoro poi è nelle condizioni di dialogare, altrimenti sarà solo polemica, come diceva lei, contrapposizione, attacco. 

In questo clima, è molto facile che emergano nuovi autocrati, come sta accadendo in America e anche in altri paesi. Questo rischio lei lo vede? 

I rischi sono sotto gli occhi di tutti. Lasciamo stare la Russia e la Cina che non hanno una grande tradizione democratica, mettiamola così. Ma il problema riguarda soprattutto gli Stati Uniti d'America, che sono un grande paese a cui dobbiamo, in parte, la nostra democrazia insieme a Inghilterra, Gran Bretagna e Francia che hanno dato un grande contributo. Di sicuro, senza gli Usa non avremmo avuto la democrazia nel ‘900 e invece, adesso proprio lì la situazione è disastrata. È diventato un Paese dove persino la libertà di parola e di satira sembra messa in discussione, così come la protesta nelle università, nelle strade: cioè sono in crisi tutte quelle forme, più evidenti di esercizio delle libertà democratiche. Il vero problema è che questo tipo di società è sostenuto dalla maggioranza della popolazione, che non vuole più lo spazio vuoto che si chiama democrazia, dove si può dialogare. Bensì, vuole il controllo di forme autocratiche, dove ciò che veramente si impone è la forza, la disciplina nel nome del capo. E questo è un grosso problema per la sopravvivenza delle nostre democrazie. 

Secondo lei è possibile ricostruire dal basso l'idea della democrazia? 

Non lo so. In teoria sì, è possibile. In pratica, è possibile. Ma davvero non ne ho idea. Mi viene in mente la cosiddetta anaclosi, che è la modalità mediante cui lo storico greco Polibio sintetizza il ciclo di vita della polis greca. Lui diceva che all'inizio abbiamo il caos, dopodiché si afferma la monarchia, perché uno più forte, più bravo, più onesto e più intelligente degli altri prende il potere e tutti gli altri sono contenti di attribuirgli il potere perché questa persona ha messo fine al caos e ha stabilito l'ordine. Poi succede che il re muore, arriva il figlio che è meno bravo, arriva il nipote che è ancora meno bravo e a questo punto viene a mancare una statura morale e si genera la tirannide. Un solo soggetto accentra il potere ma non lo merita, perché non ha la capacità, la statura morale, l’etica, la conoscenza. A questo punto, la tirannide genera la ribellione dei migliori e si ha l'aristocrazia, la quale, a sua volta decade, creando l'oligarchia, la quale viene ribaltata dalla democrazia, intesa proprio come demos

Demos, prima che significa prima del senso generico di popolo indica un popolo educato, responsabile, istruito. Non è il laos, che è da cui viene laicità, cioè la gente il popolo in quanto nazione nazionalità contratti fisici contraddistinti. Il demos, che è il popolo educato che sta sul territorio, lo conosce, lo ama e lo vuole veramente governare nella maniera migliore. Questa è la democrazia che, a sua volta, decade dopo un po' e si genera quella che Polibio chiama l'oclocrazia, da dove oclos è la marmaglia, la plebaglia, quel popolo a cui interessa unicamente Panem et Circensem: la pancia piena e il divertimento psichico. Probabilmente, noi ci stiamo apprestando a saltare la monarchia per giungere direttamente alla tirannide, con gli autocrati di cui lei parlava. Io, naturalmente, spero che la democrazia possa resistere e faccio di tutto nel mio piccolo perché la democrazia possa riprendersi. Però, la situazione è quella è questa ed è sotto gli occhi di tutti a livello mondiale. 

Secondo lei quale può essere il ruolo degli intellettuali in questa fase? 

Offrire pensieri liberi, onesti e profondi, senza nessuna casacca. Quello di cui c'è bisogno, secondo me, perché un intellettuale sia veramente tale, sono due cose insieme. Uno: la preparazione, l'intelligenza, la capacità di analisi. Due: l'onestà intellettuale di chi mette a servizio la propria intelligenza e le proprie analisi, non tesi precostituite di una parte politica piuttosto che un'altra e non è scontato. Ci sono persone che, quando parlano, sai già che cosa dicono appena ma aprono la bocca sia a livello di contenuto, ma sia soprattutto a livello di schieramento, perché sono soldati, persone che hanno l'elmetto; che quando parlano preferiscono parole usate come proiettili, per cui il loro unico interesse è colpire il nemico, punto e basta. 

E questi sono i polemisti per eccellenza. Ecco, il compito dell'intellettuale dovrebbe essere quello di rifuggire completamente da una figura di questo tipo e di essere, al contrario, super partes per quanto è possibile. Dev’essere onesto intellettualmente e deve offrire le proprie analisi alla coscienza contemporanea, senza preoccuparsi che risultano gradite o sgradite a una parte o all'altra. È quello che tento di fare io coi miei articoli, i miei editoriali sulla stampa, coi miei libri e le interviste. Una volta ho scritto un editoriale a favore dell'obbedienza, dicendo che le nostre scuole, in generale la società nel suo insieme, dovrebbero tornare a rivalutare il ruolo effettivo della gerarchia e quindi dell'obbedienza. È un editoriale che uno oggi direbbe di destra, perché da sempre l'obbedienza è stata vista come un valore di destra mentre la disobbedienza come un valore di sinistra. Ma io credo che oggi ci sia bisogno di questo e non mi preoccupo di parlare alla sinistra o alla destra: mi preoccupo di dire onestamente quello che vedo, ecco. E io penso che il ruolo degli intellettuali dovrebbe essere questo.



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