C’è bisogno di etica e amore anche nell’era dell’Intelligenza Artificiale
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25 ottobre 2025
di Alessandro Gisotti
Ha iniziato a interrogarsi sull’Intelligenza Artificiale quando sembrava materia esclusiva per tecnici e non un fenomeno rivoluzionario che ci avrebbe cambiato la vita. Nel corso degli anni, insegnando a Oxford e a Bologna, i suoi studi gli hanno dato ragione. Oggi Luciano Floridi, filosofo e direttore alla Yale University del Digital Ethics Center da lui stesso fondato, è uno dei principali esperti mondiali sull’etica e la filosofia dell’informazione. Le sue lezioni, i suoi Ted talks e i suoi libri (é in uscita per Mondadori La differenza fondamentale) hanno attratto l’interesse di tantissime persone in tutto il mondo.
In questa intervista con i media vaticani, il professor Floridi riflette sulle grandi sfide dell’AI, ne mette in luce rischi e opportunità e non manca di commentare sul contributo che un Papa come Leone XIV può dare alla riflessione sulla rivoluzione digitale.
Fin dai tempi del liceo, siamo abituati a pensare che la filosofia deve aiutarci a formulare le domande giuste, piuttosto che a trovare le risposte migliori. Oggi sulla rivoluzione digitale e, in particolare, sull’Intelligenza artificiale, quali sono, secondo lei, le domande più importanti?
A me dispiace questa visione della filosofia che pone domande senza dare risposte. Preferirei rivederla, per partire meglio: domande giuste e risposte convincenti. Detto questo, le domande che oggi ci poniamo sulla rivoluzione digitale sono fondamentali perché toccano le basi della nostra società e del nostro modo di vivere, individuale e sociale. Facciamo qualche esempio concreto: l’idea di chi siamo come umanità e di che cosa possiamo diventare, questioni di carattere etico che oggi devono essere riproposte e analizzate in termini di società digitale. Oggi identificarsi vuol dire anche identificarsi attraverso i propri profili e la propria presenza onlife, cioè sia online sia offline. Vuol dire anche avere a che fare con l’amicizia, che non è soltanto quando ci stringiamo la mano ma anche quando ci incontriamo sui social media. O si pensi a come il digitale potrebbe aiutarci a risolvere il cambiamento climatico.
Non è certo la prima volta che nella sua lunga storia l’umanità affronta una rivoluzione trainata da un progresso tecnologico. Cosa distingue allora la rivoluzione digitale dalle altre rivoluzioni del passato come per esempio quella industriale?
Credo che ci sia una forte analogia e una forte differenziazione. È una rivoluzione a livello della rivoluzione agricola, quando ci siamo urbanizzati, o di quella industriale, quando abbiamo trasformato il lavoro, che richiedeva forze naturali, in forza motrice a vapore, a scoppio, elettrica. La rivoluzione che stiamo attraversando è di questo livello macroscopico. Perché, però, si differenzia da queste altre due? Perché rappresenta una rivoluzione che i filosofi chiamerebbero “ontologica”, cioè una rivoluzione nella natura delle cose con cui abbiamo a che fare. Non è mai successo che noi cambiassimo letteralmente la struttura degli oggetti con cui interagiamo. Si parla infatti di rivoluzione digitale perché si parla di una rivoluzione nella natura di ciò che costruiamo e con cui interagiamo. Ora abbiamo trasformato la realtà in qualcosa che non è soltanto analogico e tridimensionale ma anche digitale e quindi molto più malleabile e trasformabile. Vediamo, a esempio, l’intelligenza artificiale che assorbe tutto il sapere umano digitalizzato come input per poi darci indietro informazioni. È chiaro che, per la filosofia, questo è letteralmente rivoluzionario. La natura delle cose, la loro intrinseca ontologia, è stata modificata. Questo vuol dire ripensare moltissime questioni fondamentali della filosofia. Ne cito una soltanto per fare un esempio. Il concetto, immaginate, tanto antico quanto la filosofia greca: quello di sostanza.
Che cosa significa oggi essere un oggetto, qualcosa con cui ho a che fare? Una risposta potrebbe essere l’interazione con quell’oggetto. Se io posso interagire con “X”, allora “X” esiste. Ma “X” esiste anche semplicemente come icona su uno schermo e non ha una sua materialità, come avremmo magari pensato con Aristotele o Newton. Ecco, questo vuol dire ripensare profondamente il concetto di che cosa significhi esistere.
Lei sostiene che abbiamo creato una tecnologia a «intelligenza zero, che non ha l’intelligenza neppure di un topo, ma che tuttavia ha una capacità straordinaria di agire e quindi di risolvere problemi». C’è il rischio di avviarsi verso una dittatura funzionalista dove alla fine quello che conta è solo “il problema risolto”?
È un rischio altissimo perché è di una comodità straordinaria! Lo vedo anche nelle giovani generazioni, negli studenti che ogni anno arrivano a Yale. C’è una sorta di tentazione, quasi da peccato originale, che si potrebbe chiamare “tecnosolvismo”. Pensare che ci sia da qualche parte qualcuno o qualcosa che possa ingegnerizzare una soluzione senza bisogno di responsabilità, di scelte, di etica, di normatività e quindi di impegno e controllo umano, ma che semplicemente faccia sì che il problema non sussista, perché l’ho risolto a monte con una soluzione tecnologica e ingegnerizzata. Vuol dire pensare che da qualche parte, prima o poi, con la tecnologia si potrà evitare il momento della responsabilizzazione, della scelta. Questa tentazione va resistita a tutti i costi perché è fallace. Perché, in realtà, deleghiamo quelle che sarebbero scelte anche etiche, implicitamente. Ciò che appare come una soluzione neutra, tecnologica e ingegnerizzata, di fatto nasconde scelte implicite o strategie che non vogliono mostrarsi.
Come sa, Papa Leone XIV, laureato in matematica, ha espresso fin dall’inizio del suo pontificato un’attenzione particolare per la sfida dell’Intelligenza Artificiale. Che contributo può dare al dibattito filosofico un pontefice che porta chiaramente una prospettiva diversa da quella con la quale si confronta ogni giorno a Yale?
La mia speranza è che la Chiesa e il nuovo Pontefice possano fare due cose. Da un lato ricordarci costantemente, nel messaggio e nell’azione, l’aspetto spirituale dell’esistenza umana. Lo dico da agnostico, non da credente, ma da agnostico vicino a chi è credente. Ricordare all’umanità la sua straordinaria unicità come qualcosa che è — direi in termini forse un po’ anglosassoni — “peculiare” in questo universo. In altri contesti ho parlato di beautiful glitch.
Che questa peculiarità sia dovuta al trascendente, oppure a uno straordinario bellissimo errore di natura, questo lo lasciamo a chi ci legge. Un papa che ci ricorda la spiritualità umana è fondamentale. Ma dicevo due cose. Non basta soltanto ricordare, serve anche interpretare di nuovo questa spiritualità. E questo, secondo me, è più bello, più complicato, ma anche più ripagante se riusciremo a farlo. Una spiritualità da XXI secolo non è quella che potevamo avere anche soltanto una generazione fa. Deve essere una spiritualità che non può essere soltanto ricordata, ma deve essere interpretata di nuovo. Proprio di nuovo. Cioè, una spiritualità che ci ricordi che cosa vuol dire essere umani fino in fondo. Dobbiamo scrivere questo nuovo capitolo. Una Chiesa e un papa che ci aiutassero ad avere una spiritualità da XXI secolo, degna e all’altezza delle tecnologie che abbiamo costruito, sarebbero veramente un enorme successo. Mi auguro che ciò possa avvenire.
Proprio Leone XIV, pochi giorni fa incontrando un gruppo di medici, ha affermato che «un algoritmo non può mai sostituire un gesto di vicinanza o una parola di consolazione», esprimendo il timore che si voglia un po’ delegare alle macchine anche ciò che è più propriamente umano. Condivide questa preoccupazione?
Sì, perché è nella tendenza della nostra società migliore dare un po’ tutto a tutti, cioè cercare di raggiungere tutte le persone. La vicinanza umana è qualcosa che noi vogliamo, agogniamo, speriamo di avere e di avere sempre. A volte non è possibile: si è soli, abbandonati, dimenticati. La società in cui viviamo è composta da miliardi di individui, e la tecnologia cerca di dare una mano. Allora “meglio di niente”: forse un robottino che ti saluta la mattina, o magari una voce amica online che ti ascolta e ti dà qualche consiglio. Il “meglio di niente” ci fa aspettare che il meglio arrivi, che qualcosa di più ci sia, che, a esempio, in un momento di difficoltà si possa far conto su un amico, non soltanto su una voce anonima di un bot online. Non scambiamo dunque il “meglio di niente” con la ricchezza e la pienezza di un’interazione umana. E soprattutto mi permetta una parola un po’ forte: scambiarla con un contesto d’amore. Per citare sant’Agostino: se l’amore è veramente tutto quello che conta e puoi fare qualunque altra cosa, allora la voce di un bot da qualche parte, il robottino che ti saluta la mattina, è veramente solo un piccolo aiuto che non dovrebbe neanche avere senso comparare.
Lei già oltre dieci anni fa ha parlato di “infrastruttura etica” e ha avvertito che nella rivoluzione digitale «l’etica non è un lusso ma una necessità». C’è oggi una sufficiente attenzione su questo fronte oppure la percezione che sia un po’ ai margini è concreta?
Io la metterei in termini comparativi. Ce n’è un po’ di più, ma non ce n’è abbastanza. Ce n’è di più rispetto a quando ero un giovane ricercatore ed eravamo veramente quattro studiosi che si potevano incontrare in una stanza e parlare di queste cose. Quindi si sono fatti notevoli passi avanti, ma non abbastanza. L’etica sembra quasi una ciliegina sulla torta che si può mettere, ma se non c’è va bene lo stesso. Come ho detto in passato, purtroppo non è così. La realtà non ci farà sconti. Se noi non trasformeremo questo momento di riflessione etica in un momento anche pragmatico di reale costruzione e cambiamento, non è che le cose negative non avverranno. Avverranno e dovremo ripararle più tardi con maggiore sforzo, con costi umani di sacrifici, dolore, oggi evitabili, e anche costi finanziari. Lo dico per chi non capisce i costi etici. Parliamo almeno dei costi finanziari, perché vanno comunque di pari passo. Quello che non faremo oggi con questa società digitale che dovremmo costruire, in termini di regolamentazione, di limiti, ma anche di agevolazioni e di buone innovazioni, tutto ciò che non faremo, non sparirà come problema. Ci morderà la coda tra qualche tempo, con costi di gran lunga superiori. Ricordo ai ragazzi che, purtroppo, non abbiamo prevenuto Auschwitz. L’abbiamo liberata. È bello aver liberato le persone che erano ad Auschwitz, ma non aver prevenuto una simile tragedia è atroce e una macchia sull’umanità che non potrà mai essere cancellata, se non da un Dio. Questo resterà nella nostra coscienza per sempre. Prevenire i danni e i mali che sappiamo essere evitabili e che si verificheranno: questo è un dovere morale.
Purtroppo la storia ci insegna che l’umanità ritarda finché può e poi interviene per riparare. Speriamo che questa volta sia diverso.
Uno degli ambiti dove è più pervasivamente intervenuta la rivoluzione digitale, prima sui dati e ora con l’Intelligenza Artificiale, è quello dell’informazione. Lei del resto già molto tempo fa parlava di “infosfera”. Siamo destinati a vivere in un mondo dove finzione e realtà, verità e fake news, saranno indistinguibili?
Un po’ sì. Lo vediamo in politica. La politica ha sempre giocato con questo fuoco, ha sempre cercato di tirare un po’ le cose per farle apparire meglio di quanto non fossero, o, peggio, a volte, di quanto fossero, per convincere con la propaganda e così via. Ma oggi la politica non ha più limiti. Ovunque andiamo a vedere nel mondo, la classe politica ha fatto propria l’idea che si possa dire qualsiasi cosa e il contrario di qualsiasi cosa, anche nella stessa frase, impunemente, senza che nessuno te ne faccia una colpa o se ne debba pagare i costi. Allora, su questo direi che, purtroppo, alcuni vincoli sono stati superati: i “momenti di diga” contro le cose false e inventate, le fandonie, la propaganda, le fake news, sono troppo deboli. Quello che immagino possa accadere in futuro è, da un lato, un recupero, il che sarebbe positivo; dall’altro, una sorta di abitudine a dire “ma chissà”, un po’ di scetticismo, un po’ di cinismo. «Forse i vaccini fanno bene, fanno male, ma sai che ti dico, non lo so, chi se ne importa». Insomma, una sorta di qualunquismo disimpegnato, che si tira fuori, che evita l’impegno epistemologico nel dire: “Sì, le cose stanno così”. Oppure “No, guarda, è il contrario”. Temo che si vada in questa direzione, diciamo un po’ Ponzio Pilato, un po’ don Abbondio, frastornati dall’enorme rumore e confusione che verità e falsità, scontrandosi tra loro, finiscono per generare. Temo che molti, privi di guida e di riferimenti, decideranno, nel migliore dei casi, di sospendere il giudizio. C’è molto da fare, di nuovo, dal punto di vista della normatività epistemologica, per dirla in termini un po’ forti, filosofici, cioè di dover conoscere, dover sapere. Se riuscissimo ad attivare degli anticorpi in questa direzione, non sarebbe troppo tardi. Sicuramente non è troppo presto.
Dovremmo farlo ora. Ultima battuta su questo: la responsabilità del mondo dell’università, della ricerca, della cultura, della costruzione della conoscenza e di chi comunica, quindi dei mass media, è enorme. Abbiamo pensato, nel tardo Novecento, che giocare con il relativismo e gridare “al lupo” fosse tanto intellettuale e non costasse nulla. Ora ne paghiamo le conseguenze. Se tutti ci guardassimo un po’ in casa propria e cominciassimo a pulire laddove siamo, credo che ci aiuterebbe molto.
A Milano, il 19 e 20 novembre, si svolgerà l’evento da lei promosso «Orbits - Dialogues with intelligence». Saranno coinvolti anche molti giovani. Di che si tratta?
Questa è una bella iniziativa che stiamo portando avanti anche con il Ministero dell’istruzione e del merito per aiutare i ragazzi e le ragazze ad avere idee più chiare, a porsi qualche domanda in più e a trovare punti di riferimento più solidi, nel contesto delle trasformazioni digitali. Oggi, ovviamente, la trasformazione digitale significa soprattutto intelligenza artificiale (AI).
Soltanto qualche anno fa parlavamo di metaverso, poco prima di social media, big data, cloud computing, web, internet e telefonia mobile, personal computers (pc). Questo viaggio che ho appena abbozzato, di una trasformazione digitale dal pc all’AI, sta per chiudersi, nel senso che sta emergendo una generazione che non ha mai conosciuto un mondo esclusivamente analogico. Ormai ci siamo. Per questo cercare di capire di più, avere un impatto etico maggiore e un po’ di fiducia nelle capacità umane di risolvere problemi che a volte sembrano insormontabili, non solo è possibile, ma doveroso. Stiamo ponendo le fondamenta della società digitale del futuro, di una nuova epoca nella storia umana. Possiamo farlo bene, certamente meglio. Questo sarà il tema delle giornate a Milano.





