Massimo Recalcati "Nell’era dell’algoritmo non rinunciamo alla cura come ascolto"
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17 Ottobre 2025
La potenza dei numeri e la precisione delle formule rischiano di imporre protocolli standard che ignorano la soggettività del paziente. Ma la medicina è relazione.
Il nostro tempo celebra con devozione la potenza dei numeri, la precisione degli algoritmi, la neutralità delle statistiche. Si tratta di una vera e propria idolatria che tende a scambiare lo scientismo per una nuova forma di religione.
La credenza che la sostiene è quella della traduzione esaustiva della vita in un formulario anonimo:
i vissuti emotivi diventano grafici, i corpi funzioni, i desideri riflessi condizionati, il pensiero
intelligenza artificiale. Ogni parte dell’umano può essere misurata, calcolata, tracciata.
Ma in questa nuova idolatria si è perduta la dimensione umana della cura, la quale non può essere
identificata in una procedura anonima poiché essa è innanzitutto un atto simbolico che riconosce il
carattere insostituibile di ogni singolarità. Curare non significa correggere un malfunzionamento o
normalizzare una irregolarità, ma ascoltare un soggetto, riconoscere il suo nome proprio e la sua
storia. In questo la pratica della psicoanalisi offre indubbiamente un paradigma irriducibile a quello
scientista: accogliere un paziente significa innanzitutto fare spazio alla sua parola. Lo strumentario
clinico-terapeutico non può essere usato se non in riferimento a questa postura di fondo.
Quando invece, come sottolineava con particolare forza Franco Basaglia, la medicina, o, più in
generale, ogni forma di relazione d’aiuto, rimuove questa postura, essa si trasforma fatalmente in un
esercizio di potere.
Allora il carattere impersonale dello sguardo del medico prevale sul riconoscimento della
singolarità del paziente, il quale diviene necessariamente un numero di cartella, un codice fiscale,
un caso clinico. L’incontro che è a fondamento di ogni atto di cura si riduce così a una transazione:
prestazione e ricevuta, sintomo e soluzione, domanda e algoritmo. È qui che l’incuria trova il suo
terreno più fertile: il nome proprio viene sostituito dall’anonimato del numero.
L’incuria, infatti, non è tanto l’assenza di cura, ma la sua deformazione impersonale. È una cura che
ha cancellato il volto dell’altro insieme alla sua parola, che impone protocolli e procedure standard
anziché prendere in carico la soggettività del paziente. A prevalere a senso unico è la logica
anonima dell’algoritmo – una logica senza nome, senza corpo, senza desiderio – che sopprime i
rilievi singolari che rendono invece unica la storia di un paziente. Da questo punto di vista “avere
cura” significa – nella relazione uno a uno e nella vita collettiva delle istituzioni – riconoscere
innanzitutto l’impossibilità di comprimere il nome proprio in un numero. Si tratta di un gesto di
resistenza contro la tendenza egemonica del nostro tempo a dissolvere il singolare nel collettivo, a
cancellare il volto dietro lo schermo, a ridurre la sofferenza a un dato statistico. In termini clinici
questa egemonia segnala la prevalenza deformata del codice paterno – efficienza, impersonalità,
specializzazione, tecnica – su quello materno.
L’avere cura evoca infatti la figura della madre che costituisce il perno simbolico di ogni atto di
cura. È la madre a mostrare che ogni figlio è figlio unico.
In questo senso l’amore materno esclude per principio ogni forma di serialità. Se ogni figlio ai suoi
occhi è figlio unico, non lo è nell’ordine del numero, ma solo nella sua esistenza impareggiabile.
Il codice materno in una relazione di cura, in una famiglia o in una istituzione, è quel codice che
tutela il carattere particolareggiato di ogni cura. Quella che Winnicott definiva come la
«preoccupazione materna primaria» segnala proprio la spinta della madre a tutelare la vita singolare
del figlio, a sostenerla, a custodirla, a non lasciarla mai cadere nell’anonimato.
Una madre sufficientemente buona è quella madre che non si limita a soddisfare i bisogni primari
del suo bambino offrendo il proprio seno, poiché sa bene che il desiderio umano non si nutre solo di
oggetti ma innanzitutto di segni, di quei segni che riconoscono il carattere insostituibile del
soggetto. Da questo punto di vista l’attivazione del codice materno è ciò che umanizza le cure
perché la logica che lo ispira non è quella dell’efficienza, ma quella della attenzione singolare. È lo
sguardo che chiama per nome, che riconosce la fragilità senza giudicarla, che accoglie la dipendenza del più fragile e dell’inerme come condizione costitutiva dell’esistenza.
È da questo codice che le nostre istituzioni dovrebbero trarre ispirazione traducendo l’avere cura in
responsabilità pubblica. Ma è proprio a questo livello che oggi si manifesta la frattura più profonda.
Le istituzioni nate per umanizzare la vita rischiano di diventare spazi di anonimato amministrato,
dove la relazione viva è sostituita dal formulario e la parola dal protocollo.
Prendiamo l’esempio della scuola che dovrebbe custodire la cifra singolare di ogni allievo.
Essa viene spesso ridotta a una macchina valutativa che misura, classifica, esclude. George Steiner
la definiva, da questo punto di vista, distruttrice dell’avvenire.
Si tratta di una disumanizzazione silenziosa che tende a disattivare il codice materno. Il medico
produce referti, il docente compila griglie, lo psicologo aggiorna piattaforme digitali. In questo
modo si rischia di essere trascinati dentro un vortice burocratico che mentre assicura vigilanza e
controllo genera di fatto una distanza disumana. Dovremmo invece ricordare che ogni gesto di cura
è innanzitutto un atto di riconoscimento.
Nei Vangeli Gesù non guarisce mai “in generale” perché ogni guarigione è l’esito di un incontro
singolare. Egli chiama per nome, guarda negli occhi, tocca le ferite. L’umanizzazione della cura
nasce da questo tocco, da questa prossimità, da questa resistenza che nessun algoritmo potrà
sostituire.
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