San Romero d’America: il santo che il potere ha voluto far tacere
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San Romero d’America: il santo che il potere ha voluto far tacere
A sette anni dalla sua canonizzazione ufficiale, Monsignor Romero continua ad essere la coscienza viva di un continente crocifisso dall’ingiustizia.
Sono passati sette anni da quando la Chiesa ufficiale ha canonizzato Monsignor Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo salvadoregno assassinato mentre consacrava il pane e il vino, il Corpo e il Sangue di Cristo, quel 24 marzo 1980. Papa Francesco lo ha fatto santo il 14 ottobre 2018, ma per il popolo Romero era già santo da molto prima: dal momento in cui il proiettile assassino ha interrotto la consacrazione e la sua stessa vita è diventata un’offerta. In quel momento, il suo sacrificio si è unito a quello di Cristo e il popolo ha capito che il vescovo che difendeva i poveri si era trasformato lui stesso in pane spezzato e sangue versato per amore del suo popolo.
E la canonizzazione del popolo non avviene attraverso gli uffici vaticani o le procedure che Roma impone con la sua burocrazia spirituale. Il popolo canonizza con le lacrime, con il sangue e con la memoria. Monsignor Romero è stato canonizzato dal suo popolo, dalle madri che piangevano i loro figli scomparsi, dai contadini che ha difeso, da coloro che credevano che il Vangelo non fosse una via di fuga celeste, ma un urgente richiamo alla giustizia. È stato canonizzato da coloro che hanno visto in lui il volto di Gesù crocifisso e risorto nella storia concreta di El Salvador.
È stato ucciso dai potenti. Non è stato un pazzo solitario. È stato assassinato da coloro che si sentivano minacciati dalla sua parola profetica. Gli squadroni della morte – finanziati e addestrati dall’esercito salvadoregno e sostenuti dagli Stati Uniti – hanno voluto mettere a tacere un vescovo che li disturbava, perché Romero aveva rotto il patto del silenzio. In nome di Dio, ha avuto il coraggio di dire: «Cessi la repressione». E in quell’istante ha firmato la sua condanna. Perché quando un profeta parla a tu per tu con il potere, il potere non perdona.
Il maggiore Roberto D’Aubuisson, fondatore del partito ARENA, è stato colui che ha ordinato il suo assassinio. Incarnava l’alleanza tra politica, denaro e repressione militare. Credeva che, uccidendo il vescovo, avrebbe ucciso anche il suo messaggio. Ma è accaduto il contrario: la sua morte ha moltiplicato la vita. Da quel momento in poi, Romero ha iniziato a camminare con il suo popolo a partire da un altro luogo. Nelle messe clandestine, nei rifugiati, negli esuli e nelle comunità di base la sua voce continuava ad essere viva, denunciando, consolando e accendendo la speranza in mezzo all’oscurità.
El Salvador è diventato terra di martiri. Dopo Romero sono venuti i gesuiti dell’UCA, le religiose, i catechisti, i contadini anonimi torturati e fatti sparire. Migliaia di uomini e donne che, come lui, hanno creduto che la fede non potesse separarsi dall’impegno per i poveri. Eppure, Roma ha impiegato quasi quarant’anni per riconoscere ufficialmente ciò che il popolo già sapeva fin dal primo giorno. Perché tanto ritardo? Perché la paura di riconoscere che un uomo assassinato da un regime militare benedetto dall’oligarchia è stato un vero santo?
La risposta è scomoda. Perché molte canonizzazioni non nascono dal Vangelo, ma dal potere.
Perché anche a Roma ci sono silenzi complici, interessi ed equilibri diplomatici. Non si tratta di negare la santità, ma piuttosto di chiedersi quanto costi essere santo in un sistema che canonizza con denaro e influenza. Il Vangelo, questo testo scomodo, ci ricorda che i profeti non si applaudono in vita. Si uccidono prima e poi si innalzano come statue, quando non possono più creare disagio.
Mi diceva un mio amico prete che era stato un errore dire che il popolo aveva beatificato Monsignor Romero, che non era giusto, perché le beatificazioni si fanno da Roma. Secondo lui, il popolo non ha l’autorità di dichiarare santo nessuno.
Gli chiederei, con tutto il rispetto, se tutte le beatificazioni nascono dallo Spirito o se alcune vengono negoziate negli uffici del Vaticano. Perché la storia dimostra che il Vangelo non sempre guida queste decisioni e che molte volte la Chiesa è rimasta in silenzio di fronte alla sofferenza del popolo per non irritare il potere politico.
Quante volte - mi chiedo – si canonizza l’obbedienza e si emargina la profezia? Quante volte il sistema ecclesiastico finisce per premiare chi tace e condannare chi parla in nome dei poveri?
Nel frattempo, in El Salvador le donne venivano violentate, i contadini torturati, i bambini assassinati davanti alle loro madri. E i governi che ordinavano queste atrocità lo facevano con l’approvazione di Washington e il silenzio di Roma. È impossibile parlare del Vangelo senza parlare di queste ferite. Perché la fede che non denuncia l’ingiustizia non è fede, è complicità. Romero lo ha capito meglio di chiunque altro: essere discepoli di Cristo significa schierarsi dalla parte di chi soffre, anche a caro prezzo. E lui lo ha pagato con la vita.
Papa Francesco, così diverso dai pontefici che lo hanno preceduto, ha avuto il coraggio di riconoscere ufficialmente ciò che il popolo andava proclamando da decenni: che Romero era un vero santo, un pastore con l’odore delle pecore, un profeta che non si è inchinato davanti al potere. Anche Francesco – come Romero – è stato criticato, additato, accusato di essere un populista, un politico, un comunista. Ma i due condividono una convinzione comune: il volto di Dio si rivela nel povero, non nel palazzo.
Ecco perché, quando immagino Romero e Francesco che si abbracciano in cielo, vedo una festa semplice e gioiosa, senza fronzoli. Due uomini che hanno capito che la santità non consiste nella purezza, ma nell’impegno. Che la vera santità è annunciare e denunciare. Annunciare il Regno che libera e denunciare gli inferni che il potere costruisce sulla terra.
Oggi, a otto anni dalla sua canonizzazione ufficiale, Monsignor Romero continua ad essere una ferita e una speranza. La sua parola risuona più viva che mai: «In nome di Dio e in nome di questo popolo martirizzato, vi supplico, vi prego, vi ordino: cessi la repressione!».
Quel grido non è stato solo per il suo tempo. È un’eco che attraversa generazioni e frontiere.
Perché, finché ci saranno popoli umiliati, donne violentate, giovani scomparsi e governi che chiamano «ordine» l’ingiustizia, la voce di Romero continuerà a risuonare come una campana che non si può mettere a tacere.
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Articolo pubblicato il 14.10.2025 nel sito «Ataque al poder» (www.ataquealpoder.es).
Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli