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Dietrich Bonhoeffer, a 80 anni dalla morte

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A ottant’anni esatti dalla morte del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, avvenuta il 9 Aprile 1945 nel campo di concentramento di Flossembürg, a soli 39 anni, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose Romano Guardini di Trento promuove mercoledì 9 aprile 2025 nel capoluogo un convegno in memoria del martire cristiano.

L’appuntamento è al Polo culturale diocesano Vigilianum.

Introdotto e moderato dal docente trentino Alberto Conci, uno dei massimi esperti italiani di Bonhoeffer e del suo pensiero, al convegno interverranno Ludwig Monti (Attualità delle intuizioni cristologiche e umane nelle lettere dal carcere), Nicoletta Capozza (Eredità e futuro. La diagnosi di Bonhoeffer sul futuro del cristianesimo), Fulvio Ferrario (Onestà intellettuale: una categoria teologica) e Massimo Grilli (Bonhoeffer e la Bibbia. La fecondità della lettura ermeneutica sui due Testamenti).

Il convegno si svolge con la collaborazione dell’Editrice Queriniana di Brescia che ha pubblicato una vasta edizione critica delle opere di Bonhoeffer.

“Riteniamo che il pensiero teologico di questo martire della resistenza – spiega don Stefano Zeni, direttore del Guardini – sia di straordinaria attualità. Molti dei suoi scritti costituiscono infatti ancora una segnaletica fondamentale per leggere i controversi segni dei nostri tempi. Chi, come noi, si occupa di Scienze religiose non può prescindere da alcune idee derivanti dal pensiero di Bonhoeffer: ad esempio, l’impegno consapevole nella storia e nel cammino comune con gli altri o la riaffermazione, per i credenti, di una fede non religiosa e aperta al confronto con chi fede non ne ha. O, ancora la difesa rigorosa del principio della pratica della laicità. Tutte tematiche particolarmente care a Bonhoeffer e che ancora oggi conservano la loro fecondità e validità”. 


Ogni parola nuova nasce dal silenzio della preghiera di Fulvio Ferrario 
Riforma- settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi 
del 4 aprile 2025 


A ottant’anni dalla sua morte, leggere la parabola intellettuale di Dietrich Bonhoeffer come una risorsa per il nostro cristianesimo europeo, in drammatica difficoltà e in alcuni luoghi (come quelli che videro l’attività del teologo) addirittura agonizzante, può apparire una tipica forzatura “da anniversario”: in realtà, Bonhoeffer è anzitutto tedesco, profondamente (e proprio per questo non acriticamente) luterano, per molti aspetti, nonostante la sua fama di rivoluzionario, assai conservatore, in teologia, in etica, in politica. In questi tempi di “decostruzione”, persino il fascino della sua persona sembra appannato: parecchio maschilista, autoritario, moralista. 

In effetti, una lettura spregiudicata di Bonhoeffer mostra abbastanza chiaramente che le sue parole provengono da un mondo assai diverso dal nostro: anche se li citiamo volentieri, sono testi aspri, paradossali, a volte irritanti, che arrivano decisi sia alla testa, sia al cuore, ma non per tranquillizzarli, bensì per provocarli. 

Cominciamo da Sequela, frutto dell’esperienza del seminario per la formazione pastorale di Finkenwalde: il grido contro la «grazia a buon mercato», cioè contro un cristianesimo che crede di essere protestante, mentre è semplicemente debosciato, senza disciplina, senza preghiera, senza lotta spirituale. Bonhoeffer sa che un simile cristianesimo, e un ministero pastorale a esso ispirato, non può resistere nell’ora della prova. Noi non siamo negli anni Trenta, anche se non pochi elementi dovrebbero ricordarli a chi ha occhi per vedere: la fede cristiana, però, continua a essere ascolto della predicazione e obbedienza a Gesù, diversamente è chiacchiera; e l’esistenza pastorale vive di una passione infuocata: può essere anche una professione, ma mai solo una professione. Bonhoeffer lo ricorda in modo démodé e “urticante”? E meno male! Abbiamo, in effetti, più bisogno di «ortiche» (evangeliche, si capisce) che di mode. 

L’Etica, scritta durante la congiura, è una grande riflessione sulla complessità del reale. Il mondo è creazione di Dio e non del diavolo e questa è la ragione per la quale vale la pena impegnarsi in esso. Tale impegno richiede riflessione, competenza e determinazione. Vita con Gesù non è ripetizione di versetti (il che, detto da Bonhoeffer, non è così banale...) o enunciazione di principi, bensì immersione nel carattere contraddittorio della realtà. La persona responsabile sa di doversi caricare della colpa: Cristo la libera dall’illusione moralistica di venirne a capo con le mani pulite. Egli libera anche dall’idolatria ideologica, che così spesso si traveste da “radicalità” (o addirittura da “profezia”!): la realtà non si lascia imprigionare dai principi, perché il Logos a partire dal quale Dio l’ha creata non si manifesta in un principio, ma nella carne dell’uomo di Nazareth. Tra l’ideologismo fanatico di don Chisciotte e il cinismo opportunistico di Sancho Panza, vi è la responsabilità che nasce dalla fede. Naturalmente, neanch’essa può essere trasformata in uno slogan da esibire a piacere, né possiamo chiedere a Bonhoeffer di essere responsabile al posto nostro. Chi, come il sottoscritto, avverte con forza il fascino di questo autore, conosce anche la tentazione di sventolare i suoi libri come le Guardie Rosse (comprese quelle nostrane) facevano con il libretto dei pensieri di Mao. Ma è un rischio che va evitato: il testimone non rinvia a se stesso, ma a Dio. 

In questi mesi, l’Europa si trova di fronte a scelte di enorme portata e, come sempre nelle occasioni drammatiche, grande è la tentazione dei semplicismi, delle parole d’ordine, delle frasi fatte. Le Chiese non sono estranee a queste dinamiche ed è inevitabile che anche al loro interno vi siano dissensi e polemiche. Sarebbe bello (e chissà: forse anche utile) se la discussione tenesse conto del fatto che, a volte, la complessità degli argomenti è un tentativo, seppur modesto, di aderire alla complessità del mondo. 

Infine, le lettere dal carcere. È vero, nessuno è stato in grado di spiegare con esattezza che cosa sia un «cristianesimo non religioso»: in un certo senso, non lo sapeva neanche Bonhoeffer, si trattava di un fascio di intuizioni, assai più che di una teoria. Il nocciolo del tema, la linea di forza del pensiero, tuttavia, non sono oscuri: la predicazione di una realtà a due piani, cielo e terra, e di un essere umano diviso, interiorità ed esteriorità, non è adeguata né alla Bibbia né al nostro tempo. Certo, se bastassero stravaganze teologiche post-qualcosa, per uscire dallo stallo, saremmo tutti e tutte bravi. Bonhoeffer ha avuto modo di imparare che qualsiasi parola “nuova”, o anche semplicemente non banale, nasce dal silenzio della preghiera. Sembra paradossale, ma egli intende dire che la religione dei luoghi comuni pii e convenzionali (che possono credersi anche “progressisti”) si supera solo nella lotta orante con Dio, accanto alla croce di Gesù Cristo. Non il paganesimo che dice di essere secolare, ma Gesù è la fine della religione. Che cosa significa, de facto, per me? Questo non me lo può dire neanche Bonhoeffer, ma leggere i suoi scritti mi invoglia a chiederlo a Dio. 

Dietrich Bonhoeffer Testimone di Gesù Cristo di Ludwig Monti 
Rocca n. 8 del 15 aprile 2025 


Il prossimo 9 aprile ricorre l’ottantesimo anniversario del martirio del teologo Dietrich Bonhoeffer, impiccato per ordine di Hitler, a 39 anni, nel campo di concentramento di Flossenbürg. Sulla ricca e complessa traiettoria esistenziale di questo “teologo, cristiano, uomo contemporaneo” (secondo la sintesi del suo fraterno amico e biografo Eberhard Bethge), confluita nella resistenza al Führer e nel fallito tentativo di complotto per eliminarlo, molto è stato scritto. 
Mi concentro solo su alcune intuizioni lasciateci in eredità da Bonhoeffer, nelle sue lettere a Bethge dal carcere (raccolte in Resistenza e resa), dove egli resta rinchiuso negli ultimi due anni di vita. Mi limiterò a chiosare pochi brani fondamentali delle sue missive scritte tra l’aprile e l’agosto 1944: Bonhoeffer, sapendo che non gli rimane più molto da vivere, condensa il pensiero di una vita e ci consegna intuizioni sul cristianesimo che quasi un secolo dopo sono ancora da sviluppare. E soprattutto da vivere. Dopo aver letto e riletto Resistenza e resa. 
Scrive il 30 aprile 1944: 
«Ciò che mi preoccupa senza posa è la questione di cosa sia veramente per noi il cristianesimo o anche chi sia Cristo oggi. È passato il tempo in cui lo si poteva dire agli uomini tramite le parole – anche parole teologiche o pie –; così come è passato il tempo della religione in generale. Stiamo andando incontro a un tempo non-religioso [religionslos, “a-religioso”]; gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi. Il “cristianesimo” è stato sempre una forma (forse la vera forma) della “religione”. Ma se un giorno diventa chiaro che questo apriori non esiste affatto, e che s’è trattato invece di una forma d’espressione umana, storicamente condizionata e transitoria, se insomma gli uomini diventano davvero radicalmente non religiosi – e io credo che più o meno questo sia già il caso (da cosa dipende ad esempio il fatto che questa guerra, a differenza delle precedenti, non provoca una reazione “religiosa”?) – che cosa significa tutto questo per il “cristianesimo”? (…) Come può Cristo diventare il Signore anche dei non-religiosi? Ci sono cristiani non-religiosi? Se la religione è solo una veste del cristianesimo – che ha assunto aspetti molto diversi in tempi diversi – che cos’è un cristianesimo non-religioso?» 
Capiamo bene ciò che Bonhoeffer scriveva ottant’anni fa, perché ci siamo completamente dentro. 
Le parole chiave sono Cristo/cristianesimo e religione/non-religione/apriori religioso. Sul primo concetto torneremo, perché il tema cristologico è il tema della vita di Bonhoeffer. Sul secondo, il discorso è più sfaccettato, ma in fondo semplice. Bonhoeffer intende la “religione” alla luce della sua tradizione luterana, in opposizione alla fede/rivelazione. In breve: “L’‘atto religioso’ è sempre qualcosa di parziale, la ‘fede’ è qualcosa di totale, un atto che impegna la vita intera. Gesù non chiama a una nuova religione, ma alla vita” (18 luglio 1944). 
Dicendo questo Bonhoeffer non mira a “distruggere” la Chiesa o i sacramenti (anche se, nel suo “Progetto per uno studio” del 3 agosto, “tutto nel frammento” e indice di una riflessione di cui purtroppo non ci è pervenuto nulla, giungerà a una visione molto radicale al riguardo)… ma ha come bersaglio la postura psichica che vorrebbe tenere l’essere umano in catene, schiavo di quell’“apriori religioso” che oppone in maniera a-cristiana terra e cielo. Si pensi, ancora, al passo di una lettera alla fidanzata di otto mesi prima: “I cristiani che osano stare sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in cielo…”.
In più, alla luce del suo ragionamento sulla “forma occidentale del cristianesimo”, sorge spontanea la domanda: egli pensa a una critica alla religione come fenomeno storico o a una critica teologica al fenomeno-religione tout court? “Per l’ultimo Bonhoeffer il cristianesimo ormai deve essere nonreligioso. Egli afferma il rifiuto e l’inutilità di un’apologetica fondata sull’‘apriori religioso’, che gioca sulla debolezza dell’uomo per presentargli il cristianesimo come soluzione ultima. Come pensare il cristianesimo e Dio al di fuori di ogni linguaggio religioso?” (A. Corbic). In fondo, non fa che ricollegarsi a Gesù, quando si chiedeva: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?” (Mc 3,4). Ovvero: religione o vita, se il cristianesimo è “la religione dell’uscita dalla religione” (M. Gauchet)? Cristianesimo che riesce a ritrovare il suo carattere cristiano in forme nuove, necessariamente a-religiose. 

ESSERE CRISTIANI IN UN MONDO DIVENUTO ADULTO, ETSI DEUS NON DARETUR 

Due altre “costellazioni” del vorticoso pensiero di Bonhoeffer nell’ultima estate della sua prigionia sono: mondanità, mondo divenuto adulto, aldiquà; Deus ex machina, Dio tappabuchi, vivere etsi Deus non daretur. Concetti da comprendere debitamente (non tradendo Bonhoeffer con il fare di lui un “ateo”, terribile fraintendimento!), meditando Resistenza e resa e magari anche Etica, opera incompiuta dei suoi ultimi anni, che egli considerava “la vera missione della sua vita” (E. Bethge). 
Lasciamo ancora la parola a Bonhoeffer
«Dobbiamo vivere nel mondo “etsi deus non daretur” [come se Dio non ci fosse]. E appunto questo riconosciamo, davanti a Dio! Il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come persone che senza Dio fanno fronte alla vita. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale stiamo. (…) Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare (16 luglio 1944)». 
Ogni commento è superfluo… 

GESÙ CRISTO È IL CENTRO DELLA VITA 

Tutto questo però, in una straordinaria capacità di sintesi e di tenere insieme gli opposti, va connesso alla pienezza della vita, al “centro della vita” contenuto nella visione della mondanità adulta. Bonhoeffer lo definirebbe “il tema che mi sta a cuore: la rivendicazione del mondo divenuto adulto da parte di Gesù Cristo” (30 giugno 1944). Nelle sue lettere Bonhoeffer testimonia – proprio mentre è nella cella di una prigione! – che “la profondità dell’essere-aldiquà del cristianesimo” (21 luglio 1944) è una chiamata alla “pienezza della vita e totalità di un’esistenza autentica” (29 maggio 1944). Egli ci chiama a porre al cuore della vita cristiana proprio la vita – non sembri un gioco di parole – in modo autenticamente terreno. Perciò scrive: “Dio vuole essere riconosciuto nella vita, e non anzitutto nel morire; nella salute e nella forza, e non anzitutto nella sofferenza; nell’agire, e non anzitutto nel peccato. La ragione di questo sta nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Egli è il centro della vita, e non è affatto ‘venuto apposta’ per rispondere a questioni irrisolte” (29 maggio 1944). Ma sono davvero opposte l’impotenza di Dio in Cristo e la vita piena in Cristo? Direi di no, stando a quanto scrive Paolo: “Noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25)? Ridetto in termini bonhoefferiani: 
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Questa è metánoia, conversione: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla sua strada nell’evento messianico (18 luglio 1944). 

SE È VISSUTO UN UOMO COME GESÙ… 

Siamo pronti per la fine, cioè per l’inizio, per l’eredità lasciataci da quell’“ánthropos téleios, l’uomo intero, quale egli è davanti a Dio” (8 luglio 1944) e ai fratelli e sorelle in umanità, che Dietrich Bonhoeffer è stato. Ci congediamo con un brano ineffabile, dalla lettera del 21 agosto, vero e proprio testamento spirituale. Gustiamolo con calma, prima di un commento conclusivo. Dajjenu, “ce n’è a sufficienza” (per una vita), direbbero i nostri fratelli e sorelle di fede ebraica. 
«Tutto ciò che possiamo attenderci e chiedere a Dio, possiamo trovarlo in Gesù Cristo. Quello che un Dio come noi ce lo immaginiamo dovrebbe e potrebbe fare, con ciò il Dio di Gesù Cristo non ha nulla a che vedere. Dobbiamo immergerci sempre di nuovo, a lungo e con molta costanza, nel vivere, parlare, agire, soffrire e morire di Gesù per riconoscere ciò che Dio promette e ciò che egli adempie. È certo che possiamo vivere sempre vicini a Dio e alla sua presenza, e che questa vita per noi è una vita totalmente nuova; che per noi non esiste più nulla di impossibile, perché nulla di impossibile esiste per Dio; è certo che noi non dobbiamo pretendere nulla e che tuttavia possiamo chiedere ogni cosa; è certo che nel soffrire è nascosta la nostra gioia, e nel morire la nostra vita; è certo che in tutto questo noi ci troviamo in una comunione che ci sostiene. A tutto questo Dio ha detto “sì” e “amen” in Cristo [cf. 2Cor 1,20]. Questo “sì” e “amen” sono il solido terreno sul quale noi stiamo. In questi tempi turbolenti perdiamo continuamente di vista perché valga effettivamente la pena di vivere. In verità le cose stanno in questo modo: se la terra è stata fatta degna di sostenere i passi dell’uomo Gesù Cristo, se è vissuto un uomo come Gesù, allora e solo allora per noi uomini vivere ha un senso». 
La domanda che Bonhoeffer si era posto nel 1933, “Chi è Gesù Cristo?”, alla fine della sua vita diventa “Chi è oggi per noi Gesù Cristo?”. Il tutto in un legame inscindibile con l’ecclesiologia: come Cristo è “l’uomo per altri”, “la Chiesa è Chiesa soltanto se esiste per altri” (3 agosto 1944). E in un legame ormai imprescindibile con la realtà – “Solo dentro al mondo Cristo è Cristo” ” (Etica) – e con la sofferenza di Dio nel mondo in Cristo, etsi Deus non daretur. 
Ha scritto Bethge: “‘Chi è Cristo per noi oggi?’ Così suona alla fine la domanda della vita di Bonhoeffer, domanda che ha fatto acquisire alla sua teologia un’importanza strabiliante. […] Il desiderio struggente di incontrare in Cristo la verità e la realtà sta dietro all’opera di Bonhoeffer dall’inizio alla fine”. Abbiamo anche noi, oggi, questo desiderio?


Rai RadioTre
Uomini e Profeti
12 Aprile 2025

Bonhoeffer, teologo, pastore protestante, resistente, morì impiccato il 9 aprile 1945 a Flossembürg, dopo un fallito attentato a Hitler. 
Ne parliamo con Fulvio Ferrario, ordinario di Teologia sistematica alla Facoltà valdese di Roma e con Ilenya Goss, teologa, filosofa e medico. Conduce Felice Cimatti.  


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