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Massimo Cacciari "Pensare alla morte ogni giorno è l’unico modo di vivere."

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Il filosofo: «La fine dell’esistenza è un passaggio. Morire è un verbo non un fatto. L’individuo contemporaneo è invece impegnato solo a sopravviversi, è attaccato all’apparenza fisica. Immaginare di durare eternamente è insensato»


Un tempo, per età e per virtù, si sarebbe potuto definire Massimo Cacciari un «grande vecchio». Ma l’unico filosofo italiano che sia noto anche a chi non ha mai letto un libro deve essere così «grande» da non apparirmi affatto «vecchio». Lucido. Amaro. Polemico. In gran forma, oltre la soglia degli ottanta. E disposto a parlare di morte, argomento che ha molto frequentato e studiato.

Cerco dunque da lei subito conforto contro la tesi di Epicuro, che personalmente non condivido affatto anche perché toglierebbe ogni senso a questa serie di interviste, secondo cui «la morte non esiste, perché quando c’è lei non ci siamo noi, e viceversa».
«Epicuro pensa alla morte come a un istante inafferrabile. Ma questa è appunto la morte, non il morire. Un fatto, non un processo e un divenire. In realtà moriamo ogni giorno, cotidie morimur. Non solo e non tanto nel senso che effettivamente in ogni istante un po’ moriamo davvero, ma piuttosto che in ogni istante possiamo pensare alla morte, inverandola così mentre lo facciamo».

Lei ha scritto: «Proprio quando noi siamo la morte c’è, proprio perché la morte è ciò di fronte a cui noi siamo vivendo, continuamente essa “vive” con-in noi… Ritenere che la morte è nulla è non voler vivere, poiché la vita si costituisce proprio di fronte alla morte, e soltanto quando noi siamo, la morte è. È la faccia nascosta della nostra vita (Rilke), e alla vita appartiene». Crede dunque che pensare alla morte ci aiuti a vivere?
«Di più: è il solo modo autentico di vivere. Vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, rendendo ogni momento conto a noi stessi dei nostri atti, pronti in ogni istante a giudicarci (che non significa essere giudicati). Morire è un verbo, non un fatto: caratterizza ogni momento della nostra vita. Io non riuscirei a vivere neanche un istante se non fossi costantemente disposto a giudicarmi».

Perciò aveva ragione Heidegger, quando parlava di «esserci per la morte»? È la coscienza della nostra finitezza che dà una direzione e un senso alla vita?
«Fino a un certo punto. Anche Heidegger, certo, intendeva la morte come il morire, nel senso che abbiamo detto. E anche per lui, come per San Paolo, vale l’estote parati: siate pronti. Ma per il filosofo tedesco essa è l’estremo del possibile, che egli infatti definisce e chiude con la morte. Perché negarci invece ogni ulteriore possibilità? Per quanto io possa vedere con la mente che la morte esaurisce ogni possibile, ciò non comporta che escluda anche un impossibile. Non posso affermare con proprietà che con la morte l’essere è annichilito, ma solo che è scomparso. Ritengo illogico escludere l’impossibile».

Dunque alla domanda di Seneca, se la morte è fine o passaggio, Cacciari come risponderebbe?
«Passaggio, certo. Non è una fine, ma un passaggio».

C’è insomma una possibilità di mondi alternativi, di altri mondi?
«Neanche i fisici escludono che possano esistere infiniti mondi. Solo che noi non possiamo vederli. La morte è una scomparsa dal cono di luce. Ma non ci può essere certezza che sia la fine».

Questo vuol dire aprire uno spazio alla fede?
«La fede è un’altra cosa, la fede è un dono, il mio ragionamento dà spazio alla fede solo sul piano logico. Ciò che so è che per me pensare così la morte è l’unico modo per vivere autenticamente».

Ma allora, Cacciari, perché qualche anno fa disse a Candida Morvillo, che l’intervistava proprio sul Corriere: «Della morte non me ne frega nulla»?
«Perché non me ne frega nulla della morte in quanto scomparsa. Nulla muore, tutto si trasforma. Viene meno la mia consistenza fisica, il mio corpo diventa altre cose. Perché dovrei stare attaccato spasmodicamente a questi processi? È normale, la natura si trasforma continuamente, ma niente si distrugge. La mia realtà non si annichilisce».

In questa serie ho intervistato un giornalista francese, Stéphane Allix, il quale sostiene che la nostra coscienza sopravvive alla morte del corpo, così come le conoscenze e le informazioni restano nel cloud anche quando muore il nostro smartphone. È possibile che esista un cloud dove vivono le nostre coscienze?
«Con ogni probabilità, sì. L’ho già detto: noi non ci annulliamo. Ognuno di noi produce costantemente informazioni e pensieri: perché mai dovrebbero annullarsi? La luce che produciamo non si esaurisce. Scompare, certo, non si vede più. Ma procede. Può darsi che io venga visto tra qualche millennio in qualche altra galassia».

Come avviene con la «luce delle stelle morte», citando il titolo di un lavoro dello psicanalista Massimo Recalcati.
«Infatti, l’ho detto in dialogo con Emanuele Severino, e ad abundantiam nel mio ultimo libro, Metafisica concreta».

Un tempo la morte aveva anche una funzione educativa, pedagogica, didattica: la sofferenza arricchiva la conoscenza. Oggi che la nascondiamo, la neghiamo, ne abbiamo quasi vergogna, sembra invece aver perso ogni significato…
«È vero, concepiamo la vita ormai come mera durata, pensiamo solo a sopravviverci. L’individuo contemporaneo è attaccato alla sua apparenza fisica. Ma è insensato immaginare di durare eternamente. L’eternità è l’opposto della durata. Il Paradiso è un istante eterno, un nunc, non una durata che non finisce mai. Il guaio è che il nostro tempo è abitato da un’umanità oscena. Perché questo atteggiamento vale in ogni ambito della nostra vita. In ogni campo l’esistenza per noi è un andare avanti senza fine. E quando dico “senza fine” intendo anche senza un fine, senza uno scopo ultimo: un indefinito sviluppo».

Lei crede che la memoria possa essere una forma di immortalità?
«Se è memoria attiva, sì; memoria vivente che renda possibile sperare. La memoria delle persone scomparse mi dà energia. Con essa riporto nella mia vita ciò che è apparentemente morto. Ma nel mio cuore, nella mia coscienza. Una memoria che non sia vissuta, immaginativa, che sia solo ricordo, non serve. Passato, che sciocca parola! Passato e nulla sono la stessa cosa, dice Mefistofele nel Faust».

Lei ha conosciuto il lutto nel corso della sua vita. E deve averne sofferto molto, a giudicare da come cambia la sua voce, più incerta, più sommessa, più pudica, appena affrontiamo l’argomento. Che cosa è il lutto per lei, e come se ne esce?
«Il lutto è un pezzo della tua vita che è scomparso ma resta nella tua vita. È quella parte di te in cui si accumula la memoria, e che con il passare del tempo cresce, e cresce. Il lutto è esperienza di ciò che scompare. È doloroso. Ma non se ne deve affatto “uscire”. Non si deve affatto “superarlo”, come si dice oggi. Il lutto bisogna “lavorarlo”, secondo la lezione di Freud. Se esce dal tuo cuore, come lo riempi altrimenti? Bisogna sentirli sempre, ricordarli i tuoi morti, perché sono alimento per la speranza. Ti lega a loro una mutua appartenenza: restare in rapporto con loro è essenziale per alimentare la tua vita. Se non ce la fai, allora il peso della scomparsa dei tuoi cari ti toglie la parola».

Ha predisposto qualche aspetto del suo futuro addio: ha lasciato indicazioni per il rito, preferisce l’inumazione o la cremazione, cose così…
«Anche di questo non me ne frega nulla. Chi resta, faccia come cavolo vuole».

Obietto che non mi sembra gentile non lasciare almeno qualche indizio.
«Se proprio me lo chiedono, vorrà dire che glielo dirò. Per esempio: penso che il rito più bello sia quello zoroastriano, che ora immagino sia proibito anche in Iran, dove pure esiste ancora una comunità, un’enclave di fedeli di questa antica religione. Lì ci sono queste bellissime “torri del silenzio”, dette dakma, alte fino a dieci metri, sulla cui sommità venivano esposti i cadaveri perché gli uccelli e gli avvoltoi se ne nutrissero, portandoli in volo con loro. Mi piacerebbe. D’altra parte, se la morte è trasformazione, meglio in un’aquila che in un verme».

E l’Occidente è morto? Come comunità di valori, come solidarietà tra popoli uniti da una cultura comune?
«L’Occidente è tante cose. Così come l’Oriente, o l’Islam. Certo, lo unifica una specie di spirito di famiglia, nonostante e anzi forse a causa del bellum civile che lo ha costantemente tenuto in conflitto interno. L’Occidente c’è insomma, e nei secoli ha assalito il mondo. Quella che noi chiamiamo globalizzazione non è altro che occidentalizzazione del globo. E ora è in evidente difficoltà. La nostra crisi demografica è spaventosa. La contrazione percentuale della ricchezza prodotta è inesorabile. L’egemonia occidentale sul mondo è in drammatica e irreversibile decadenza. Eppure l’Occidente avrebbe al suo interno, potrebbe ritrovare dentro sé stesso, l’energia e i valori per una nuova forma di egemonia, per esercitare ancora un peso decisivo sulle sorti del mondo. Se ricorda i suoi principi, quelli che l’hanno reso grande: i diritti umani, i diritti della persona, la solidarietà, la sussidiarietà. Sarebbe un’egemonia culturale, ancora possibile, nonostante sia stata fin qui tradita ostinatamente. Purtroppo nessun leader, nessun soggetto, comprende oggi questa possibilità e la interpreta. Cercano solo una supremazia, fingendo una forza di cui non disponiamo più, puntando tutto sul primato dell’economia che non deteniamo più. Per l’Occidente vale il discorso che facevamo prima per l’individuo: concepisce la sua vita come durata. Vuole conservarsi. Siamo diventati tutti conservatori. Pensiamo solo a proteggerci dai nemici, dagli stranieri, dagli immigrati. Il che è l’opposto dello spirito dell’Occidente, che è stato invece una grande esperienza rivoluzionaria, di cambiamento. Abbiamo tradito noi stessi sull’essenziale. Finiremo male».

Per lei Trump è la cura, colui che può riscattare questa decadenza con una nuova energia rivoluzionaria, o non è altro che l’estrema conseguenza di quella decadenza?
«La seconda che ha detto: la sua è la presunzione di un sistema tecnologico-economico che vuole omologare il mondo, non il progetto di una nuova egemonia culturale».

E così, parlando di morte e di ciclo della vita, concludiamo con una profezia:
«Ex Oriente Lux. Il sole ha splenduto nella storia delle civiltà dapprima sull’Oriente, poi sull’Europa, e da lì è passato a illuminare quell’estremo Occidente che è l’America. Ora si trova sul Pacifico, e sta completando il suo giro millenario».


intervista a cura di Antonio Polito


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