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Luca Diotallevi "La piramide rovesciata dei laici nella Chiesa"

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Capire cosa Francesco ci lascia è un’impresa che deve cominciare subito, ma che non si può pretendere finisca presto. Gli eventi e le persone si comprendono davvero solo con gli anni, a volte con i decenni. E poi l'emozione mette a rischio la capacità di ascolto. Il rispetto esige che si lasci da parte tanto la retorica quanto l'ostilità. L'una e l'altra forme di strumentalizzazioni. 
Ogni pontificato è un'opera incompiuta. Non è un mandato a termine e non consente pianificazione. 
Per chi crede, poi, è solo un tratto di una storia mossa dallo Spirito santo che soffia come e dove vuole. 
Entro questi limiti stretti possiamo forse già dire che è Francesco stesso ad offrirci almeno due spunti sicuri per lasciarci interpellare dalla sua eredità. Quanto ai contenuti, Francesco ha addirittura accentuato il riferimento all'evento ed al magistero del Concilio Ecumenico Vaticano 11 (1962-1965). 
Quanto allo stile, questo papa si è detto sin da subito più interessato ad avviare processi che a portare a termine operazioni. 
Se uniamo con un tratto di penna questi due punti emerge una linea che ha un senso: nella ricezione del Vaticano II Francesco ha inserito alcuni accenti inediti. Essi richiedevano una intensificazione ed insieme una correzione del tipo di ricezione di quel Concilio che con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI era prevalsa. Riascoltiamoli gli accenti posti da Francesco, almeno alcuni, forse i principali. 
Il primo: la liturgia non è in vendita e non è a scelta. Senza alcun dubbio la principale materia delle asperrime contese post-conciliari è stata la riforma liturgica impostata dal Vaticano II e varata da Paolo VI. Da quella hanno preso progressivamente le distanze i progressisti e contro quella si sono scagliati da subito i conservatori. Francesco ha revocato molte concessioni fatte a questi ultimi dai predecessori, probabilmente improvvide, certamente inutili perché non premiate da alcun ammansimento dei cosiddetti tradizionalisti (semmai il gioco fosse valso la candela). La Chiesa è innanzitutto la sua liturgia e la liturgia non è ridefinibile a discrezione del fedele-consumatore né del prete-sciamano. 
Secondo accento: la dottrina segue, la carità precede. La carità urge e si impone anche quando non tutto è stato chiarito. Ciò fa correre rischi? E che si corrano. Il dubbio resta. Può mai resistere e forse anche esistere una carità cieca? Naturalmente no: la carità cresce con la conoscenza, come sostenevano Rosmini e Martini. Può capitare però che l'istanza della chiarezza dottrinale diluisca e dilazioni l'urgenza del corrispondere alla carità? Quante volte è capitato! Quanti dolori la Chiesa ha imposto ai propri profeti! Francesco non ha dato regole. Un po' non era capace, un po' non gli interessava più di tanto. Ha posto rudemente una priorità. Che altri la declinino. 
Terzo accento: il Sud del mondo, coloro che sono trattati da scarti dell'umanità, debbono pesare di più. Non importa quanto buone siano le ragioni con le quali sostengono la propria protesta in nome dei propri diritti. Questi, anche se detti male, restano vincolanti. Come dargli torto in nome del Vangelo? Impossibile. Eppure dargli ragione non basta, bisogna mettere insieme i pezzi e provare a trovare il modo di non far peggio giustificandosi con l'intenzione di voler far finalmente bene. Il magistero sociale di Francesco è uno dei punti più deboli del suo lascito (si pensi solo alle reticenze sulla aggressione putiniana all'Ucraina), ma è impossibile per la Chiesa ed i cattolici prescindere dalle questioni che lui ha posto, anche approssimativamente a volte. Francesco non ha saputo fare abbastanza la tara alla cultura politica nella quale si era formato. Il contrasto radicale espresso da Francesco rispetto ai principi delle società aperte, che invece finalmente con Giovanni XXIII, il Vaticano II e Paolo VI si erano di nuovo incontrati con le loro radici e la loro linfa cristiana, spesso ha dato luogo ad un effetto boomerang ed a giustificarlo non basta riconoscere secoli di comportamenti predatori del Nord Ovest del mondo e magari ignorare quelli attuali del Nord Est (Russia e Cina). 
Quarto accento: alle donne va finalmente riconosciuta nella Chiesa una dignità piena. Cosa significa? Francesco non l'ha mai chiarito fino in fondo né in modo univoco. E non di rado, quando poteva apparire chiaro, allo stesso Francesco è sembrato essere troppo, se non altro troppo per ora. Quello che Francesco ha fatto è poco, ma probabilmente basterà a non invertire di nuovo la rotta. E allora sarebbe sufficiente ad essergli infinitamente grati. 
Infine: come ha detto papa Francesco, la piramide (della Chiesa) va rovesciata. Il clero è ministro: serve, non domina. In alto ci sono i laici e le laiche che vivono nel secolo. Ai laici di Azione Cattolica di tutto il mondo aveva detto nel 2017: «Siate audaci, non siete più fedeli alla Chiesa se aspettate a ogni passo che vi dicano che cosa dovete fare». La ripresa della opzione sinodale del Vaticano II e di Paolo VI, e l'allargamento della sua portata dai soli vescovi sino ad includere, almeno nelle intenzioni, l'intero popolo di Dio, è un'altra di quelle scelte, di quell'inizio di processi dai quali sarà difficile ed eventualmente costosissimo tornare indietro. 
Alla gestione dei processi che ha avviato a Francesco è mancata coerenza. Per strano che possa sembrare sono abbondate sia difetto di decisione che eccesso di accentramento. Anche lui, come già papa Wojtyla e papa Ratzinger, ha creduto forse troppo di recuperare con eventi quello che si era perso in termini di inculturazione, o si è fatto trascinare in questa illusione dallo staff, o dalla corte, di cui si era circondato o lasciato circondare. È stato un limite? Sì, è stato un limite. Eppure quei processi, ed altri, sono stati avviati. E, alla fine, se va bene, quei processi potranno essere corroborati e corretti solo perché già avviati. 
Francesco lascia un compito, un compito aperto. Rispetto allo stato in cui versano le grandi tradizioni religiose globali, ritrovarsi con un compito avviato, o riavviato e lasciato aperto, dà comunque al cattolicesimo di oggi e di domani un vantaggio di cui quelle altre tradizioni non dispongono. Del dopodomani sa solo il Padreterno. Il titolo di questo compito è semplice: la ricezione del Vaticano II non è finita, anzi, va intensificata. Gli accenti che papa Bergoglio ha posto a questo servono. Disse Paolo VI il 7 Dicembre 1965, chiudendo il Concilio ed avviandone la ricezione pratica: «La religione del nostro Concilio è stata principalmente la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d'irreligiosità o d'infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli, e quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole, apostoliche: "La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo"; e ancora: "chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede"?». A volte bene a volte malamente, Francesco ha mantenuto la Chiesa appesa a queste parole. 
Forse a volte sarà meglio correggere la rotta, ma sarebbe un tradimento grave non proseguire magari in altro modo nella direzione in cui lui ha spinto la Chiesa.



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