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Fulvio Ferrario "Francesco"

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Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. 

Per un protestante italiano, la prima associazione è praticamente obbligata: Francesco è stato il primo papa a incontrare prima una Chiesa pentecostale del nostro Paese, quella della Riconciliazione di Caserta, poi i Valdesi, in una visita a Torino, nel 2016, nel corso della quale ha chiesto perdono per le azioni “non cristiane, anzi, non umane” perpetrate dalla sua Chiesa nel passato. Credo che il dialogo diretto, la dimensione personale, costituisse una caratteristica importante di quest’uomo e che egli sapesse presentarne la rilevanza, sulla scena mediatica globale, con grande efficacia: come per Giovanni Paolo II, anche se in forme completamente diverse, il gesto prevaleva, nel suo ministero, sul pensiero formale e sulle decisioni innovative. Il caso dell’ecumenismo è indicativo: la portata simbolica dei suoi incontri è stata notevole; contemporaneamente, sul piano delle relazioni tra le confessioni (riconoscimento del carattere ecclesiale delle altre espressioni cristiane, ospitalità eucaristica), non è cambiato praticamente nulla. 

Fin dall’inizio, quasi tutti hanno individuato nell’atteggiamento del pontefice una volontà “riformista”, senza, peraltro, che il significato dell’espressione sia mai stato realmente chiarito. Nella Chiesa cattolica si è costituito un vero e proprio fronte “franceschista”, impegnato a celebrare ogni iniziativa del pontefice come un passo avanti decisivo, nella direzione solitamente indicata come “realizzazione del Vaticano II”: un processo in corso da sessant’anni, ma si sa che le Chiese, soprattutto alcune, ragionano in termini secolari. 

Contemporaneamente, si è costituita un’opposizione assai aggressiva, interessata a contrapporre, in termini a volte caricaturali, le figure dei due predecessori a quella del papa regnante; questi settori “di Destra” sono stati costantemente fiancheggiati da altri meno espliciti, formalmente rispettosi dell’autorità suprema (non è semplice, del resto, essere papisti contro il papa), ma di fatto più che perplessi rispetto ad atteggiamenti e posizioni percepite come destabilizzati. Un caso interessante è stato quella dell’“esortazione apostolica” Amoris Laetitia (2016): da una parte celebrata come testimonianza dell’accoglienza misericordiosa della madre Chiesa, dall’altra come pericoloso cedimento al relativismo morale del nostro tempo. 

Non sembra difficile, in realtà, ravvisare la completa inadeguatezza di categorie come “progressista” o “conservatore” per indicare la linea di Francesco. Molte delle problematiche caratteristiche del cristianesimo occidentale erano per lui secondarie e anche un poco futili; più di Giovanni Paolo II e molto più di Benedetto XVI, il papa argentino ha vissuto il Cattolicesimo e il proprio ruolo con una particolare attenzione al Sud del mondo, nel quale il Cristianesimo, compresa la sua Chiesa, cresce in modo impetuoso e ha priorità del tutto diverse rispetto a quelle, ad esempio, dell’Europa scristianizzata. Per tale ragione, una questione come l’ordinazione delle donne è stata immediatamente presentata come “una porta chiusa”: alcuni/e pensavano di poter ritornare all’attacco in occasione del Sinodo amazzonico del 2019, proponendo un diaconato aperto alle donne: ma anche in questo caso il niet papale aveva gelato le speranze, evidentemente poco realistiche. 

E proprio la dimensione della “sinodalità” (categoria relativamente nuova nel linguaggio ecclesiastico) ha caratterizzato, su iniziativa di Francesco, l’ultima fase del suo pontificato. Il termine sembra indicare l’opportunità di un ampio dialogo all’interno della Chiesa, ai suoi vari livelli, dalla parrocchia in su: tale dialogo dovrebbe, secondo le intenzioni, favorire l’espressione di chi, nella comunione cattolica, di fatto non detiene potere decisionale, dunque il cosiddetto “laicato”. La proposta, a quanto risulta, ha intercettato un’esigenza assai diffusa in una Chiesa che si definisce mediante l’interessante espressione di “comunione gerarchica”. C’è stato anche chi ha pensato di utilizzare questo “spazio sinodale” per sottolineare il sostantivo “comunione” rispetto all’aggettivo “gerarchica”. Il papa ha creduto di individuare soprattutto in Germania tendenze in questo senso ed è intervenuto ricordando al presidente della Conferenza Episcopale tedesca, Georg Bätzing, che in Germania c’era già una Chiesa protestante e non si avvertiva il bisogno di crearne una seconda. 

Dal punto di vista di Francesco, una simile precisazione avrebbe dovuto essere superflua: un conto e discutere e scambiarsi opinioni, un altro, specie nel quadro, appunto di una comunione “gerarchica”, è decidere: ciò è compito, appunto, della gerarchia. Molti di coloro che, a Roma, si ritengono bene informati sulle vicende vaticane, in effetti, sostengono che la bonomia “mediatica” di Francesco sia stata affiancata da un certo autoritarismo nei concreti processi decisionali. Alcuni analisti, non saprei dire se con ragione, hanno interpretato tale scenario alla luce della formazione argentina di Bergoglio e della tradizione populista-peronista. 

Resta il fatto, evidente ma per nulla banale, della prevalenza decisiva del ministero sulla persona: il papato, cioè, fa il papa, pur senza annullare le caratteristiche individuali, e per tale motivo gli elementi di continuità prevalgono in modo netto rispetto a quelli di novità. Ciò corrisponde perfettamente, del resto, all’identità di una Chiesa che ritiene di individuare le origini di tale continuità istituzionale direttamente nell’epoca apostolica. 

Come sempre accade per i grandi eventi storici, anche il significato del ministero di Francesco potrà essere compreso in modo meno inadeguato alla luce di ciò che seguirà. Mentre dunque non solo la Chiesa romana, la cristianità e il mondo intero salutano, non senza nostalgia, il primo pontefice post-europeo, qualsiasi bilancio risulta prematuro.


Fonte: Confronti


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