Massimo Recalcati "La paranoia e il carisma del leader"
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18 aprile 2025
L’altro — l’ebreo, la donna, la società, il sistema del potere, il messicano, l’ucraino, il palestinese, il migrante, l’omosessuale, lo straniero — è sempre il colpevole di tutto. Si tratta di una attitudine proiettiva oggi divenuta follemente pervasiva nella vita pubblica.
La vita collettiva nel nostro tempo appare infestata dalla presenza pervasiva della paranoia. Ne
avevamo già visto gli effetti nel corso dell’epidemia del Covid nel carattere delirante delle
elucubrazioni complottiste.
Attualmente i ragionamenti geopolitici più illuminati sul declino della democrazia nel mondo
sottolineano la predominanza di una inclinazione totalitaria che non si esplicita solo
nell’affermazione di regimi chiaramente antidemocratici ma anche come una tendenza illiberale
immanente alla democrazia stessa. Si affermano politiche ispirate da una volontà di protezione e di
espansione sovranista come risposta a una minaccia che metterebbe a rischio la propria consistenza
identitaria.
Siamo qui al cuore della lezione clinica della paranoia che si può riassumere con le parole di un
noto gerarca nazista secondo il quale assassinare è una necessità ineludibile per non essere
assassinati. In evidenza è il carattere auto-difensivo del delirio paranoico: la minaccia permanente
che l’altro incarna deve essere neutralizzata a ogni costo; aggredire sarebbe così un modo per
evitare di essere aggrediti. La spinta distruttiva rivolta verso l’altro trova qui la sua molla di fondo:
annientare il nemico è un esercizio securitario per preservare l’esistenza e l’integrità dei propri
confini. In questo modo il perseguitato diviene il persecutore in uno scambio di ruoli speculare: la
minaccia che l’altro incarna si capovolge in una accusa inesausta nei confronti dell’altro. Non a
caso Mein Kampf di Hitler è una reazione chiaramente paranoica alla crisi profonda nella quale era
sprofondata la Germania sconfitta e umiliata alla fine della prima guerra mondiale. Si trattava di
convertire una caduta melanconica individuale e collettiva in una battaglia politica al cui centro
c’era una ideologia — quella dell’antisemitismo — che localizzava nell’ebreo l’altro al quale
attribuire la colpa di quella sconfitta e di quella umiliazione. Di qui l’oscillazione tipica del soggetto
paranoico tra il sentirsi radicalmente escluso (emarginato, segregato, perseguitato) ed essere guidato
da una inesauribile ambizione narcisistica che lo sospinge a incarnare l’eccezione, a essere “il più
grande”.
È il destino cupo e delirante dello stesso Hitler: solo facendosi il portavoce e l’eroe di una missione
universale di riscatto — di una causa alla quale fanaticamente immolarsi — egli, sostenuto da una
incrollabile certezza nella verità del proprio delirio, si è potuto identificare nel ruolo del salvatore
che ridà senso e ordine a un Io e a un mondo caduti a pezzi. È l’ideale incontaminato di purezza che
accompagna ogni vera paranoia nella sua esigenza ipermorale di estirpare qualunque forma di
impurità compresa quella del sangue.
L’odio nei confronti di un nemico impuro che si vuole rendere assoluto protegge, infatti, il
paranoico dall’incontro con il suo vuoto fondamentale, con la sua insignificanza originaria. Di qui
la sua insistenza sulla certezza incontrovertibile di una ingiustizia subita che deve essere
necessariamente riscattata e di qui anche la sua piena identificazione con il proprio delirio. È una
tesi di Lacan: la dimensione infatuata della paranoia consiste nel credersi un vero Io, un Io identico
a se stesso, integro e compatto come l’acciaio. Per questo nel disegno paranoico la follia viene
sempre attribuita all’altro e non al soggetto che invece si rivela come un lucido lettore della perfida
malignità dell’altro.
L’impossibilità di accedere al lavoro simbolico del lutto nei confronti del trauma della perdita —
che non riguarda solo il soggetto individuale ma anche i popoli e gli Stati che li rappresentano —
irrigidisce il delirio paranoico nell’odio e nella recriminazione vendicativa costantemente rivolta
verso un altro vissuto come la fonte di ogni male. Il narcisismo maligno che lo anima non vuole
sapere nulla del carattere irrimediabile della ferita che lo intacca. La passione dell’ignoranza che
anima la sua esistenza è pari solo alla forza con la quale difende il suo assioma di innocenza.
In questo senso la paranoia si costituisce come il rovescio speculare della melanconia: la colpa non
è mai del soggetto perché è sempre e solo dell’altro. Ed è una colpa tanto irrevocabile e assoluta
quanto evidente e priva di ambiguità. Lo sguardo delirantemente lucido del paranoico la smaschera
ogni volta senza pietà. Nessun dubbio e nessun tentennamento: l’altro — l’ebreo, la donna, la
società, il sistema del potere, il messicano, l’ucraino, il palestinese, il migrante, l’omosessuale, lo
straniero, ecc — è sempre il colpevole di tutto.
Si tratta di una attitudine proiettiva oggi divenuta follemente pervasiva nella vita pubblica.
Non a caso i grandi paranoici possono diventare leader convincenti e carismatici. Di fronte alla
colpa che affligge il soggetto individuale o collettivo per la sua insufficienza e il suo smarrimento,
essi incarnano un’identificazione granitica al perseguitato e alla vittima che sa reagire e rialzarsi con
forza e orgoglio di fronte alle ingiustizie a torto subite.
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