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Massimo Recalcati "Francesco, il pescatore-teologo"

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La morte di Papa Francesco non decreta la chiusura del suo pontificato perché porta con sé una domanda destinata a restare aperta: può la Grazia sovvertire la Legge?

L’ultima sua scelta, quella di non essere sepolto nel tempio di San Pietro, ma in Santa Maria Maggiore, sarebbe l’ultima mossa per evitare una canonizzazione falsamente celebrativa del suo pontificato? La sua eredità apre chiaramente un conflitto che mette in gioco non una semplice successione ma l’identità cristiana come tale. 

Da un lato, una Chiesa che vorrebbe seppellire Francesco nel marmo austero e grandioso del tempio, addomesticandone il messaggio scandaloso, considerando il suo pontificato una sorta di parentesi populista-pauperistica che deve essere richiusa il prima possibile. Dall’altro, coloro che insistono nel vedere nella sua testimonianza la ripresa di un cristianesimo radicale dove l’anarchia senza Legge della Grazia appare più forte dei dogmi consolidati nella dottrina. Francesco non è stato, in effetti, un pontefice tra gli altri, ma un vero e proprio trauma nella storia della Chiesa. La sua eredità non è, dunque, un patrimonio già definito da conservare, ma un’apertura che resta incerta, un sisma i cui effetti non si sono ancora pienamente rivelati. 

Una delle dimensioni più sconcertanti della sua predicazione è stata la convergenza tra il teologo e il pescatore. Non il pescatore contro il teologo — come alcuni suoi critici dogmatico-clericali sostengono condannando un suo populismo di fondo –, ma il pescatore come cuore profondo, come punto di enunciazione singolare del teologo. È un fatto: nel suo magistero la teologia non è mai stata un sistema, ma una ferita: un’apertura al grido dei poveri, al lamento della terra, alla vertigine del dubbio, alla dimensione umana e, dunque, fallibile della fede. Di qui la centralità che ha assunto il suo corpo, divenuto — come accadde anche a quello di Francesco d’Assisi identificato alle sue stimmate — esso stesso una preghiera capace di denunciare una verità scandalosa: la santità non è nell’emendazione della carne, nella sua purificazione ascetica, ma nell’adesione piena al corpo. La verità del Verbo coincide, infatti, con la sua incarnazione. È la kenosis paolina. Di qui la centralità della povertà che ancora prima di essere un tema giustamente sociale, trova in questa stessa incarnazione la sua più profonda radice. Il tempio glorioso della Chiesa cattolica si popola allora di corpi feriti: i piedi stanchi dei migranti, le cicatrici dei carcerati, la disperazione dei senzatetto e dei tossicomani, la sofferenza dei malati, i volti e i corpi dei bambini mutilati dalle guerre. Non nascondere il proprio corpo esposto nella sua umanità fragilissima sovverte la teologia del potere: non è il tempio a rendere santo il corpo, ma il corpo a rendere santo il tempio. La sua stessa morte, allora, non può essere letta come la chiusura di una parentesi poiché mantiene aperta la ferita originaria della kenosis cristiana, lo scandalo di Dio che nel suo farsi uomo si cancella come Dio. 

Per questa ragione, coerentemente con lo spirito dei Vangeli, Francesco ha sempre subordinato il volto di Dio a quello del prossimo. Qui il pescatore si confonde con il teologo e viceversa. È la sua scommessa più alta: non l’esercizio pastorale contro la teologia, ma la teologia come esercizio pastorale. Il pescatore incarna una conoscenza che non proviene solo dai libri, ma dal vento che lacera le vele e le reti, dall’attesa, dalla fede, dal mistero della notte che precede la pesca. Dal teologo al pescatore, dalla Legge alla Grazia sono due movimenti pienamente sintonizzati: Dio non è un contabile, ma un padre che, come accade nella parabola lucana del figliol prodigo, corre incontro con gioia al figlio perduto senza la preoccupazione di dovere punire o castigare. Per questa ragione la sua eredità non sarà una semplice successione ma un campo di battaglia. Da un lato, la spinta verso una Chiesa che riconosce nello Spirito un vento capace di soffiare oltre le mura del clericalismo e, dall’altro, la resistenza di chi vede nell’anarchia della Grazia una minaccia all’ordine costituito. Francesco ha ricordato incessantemente che Dio preferisce un ateo sincero all’ipocrisia ordinaria di un credente e che Gesù non è venuto a salvare i giusti ma i peccatori perché, come ricordano con forza le parole di Qoelet, “non c’è sulla terra un uomo giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai” (Qo,7,20 ). Nessun uomo, infatti, come sa bene anche l’ebreo Freud, è fatto per la Legge. In questo la teologia di Francesco rilegge il Vangelo attraverso la centralità assoluta dell’amore. La Legge non è un codice al quale sottomettersi, ma ciò che rende possibile l’apertura della vita alla pienezza della vita. Dio non è nei cieli, ma nel lebbroso che nessuno tocca, nel nemico come figura estrema di una alterità che non è mai a nostra disposizione. Adempiere alla Legge significa riconoscere l’esistenza di una Legge senza misura, una Legge al di là della Legge. 

Significa riconoscere che questa nuova Legge è la Legge sconcertante dell’amore che traumatizza la simmetria del merito poiché, come ricorda Gesù, “c’è più beatitudine a dare che a ricevere” (At, 20,35). In questo senso, l’insistenza di Francesco sulla centralità dell’amore non è l’espressione di una retorica populista, ma un vero e proprio trauma: ciò che salva non è l’obbedienza alla Legge, ma l’incontro con la propria vocazione, con ciò che chiama, con la causa che orienta il nostro desiderio più proprio. Francesco ha mostrato che Dio non è un arido legislatore, ma un innamorato che viene a bussare imprevedibilmente alla nostra porta. La Chiesa, dopo la sua morte, deve scegliere se diventare un cimitero di precetti morali o un cantiere aperto, dove l’unica Legge che conta è quella dell’amore che non calcola. Dal teologo al pescatore: il salto mortale avviene nella carne. Si tratta di un risveglio, ma anche di una vera apocalisse. La resistenza che il suo messaggio ha incontrato negli ambienti più conservatori del cattolicesimo rivela la verità del trauma che ha rappresentato: l’apertura della Grazia spaventa assai più della chiusura del peccato.




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