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Lidia Maggi "Creare nuovo interesse per la Parola"

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aprile 2025

Occorre tornare a studiarla per misurarci con quel modo di abitare la terra che in essa è raccontato

Chiese che si svuotano, analfabetismo religioso, marginalità della questione-Dio: segnali di un esaurimento dell'esperienza cristiana? Insieme all'indifferenza diffusa nelle società occidentali, siamo testimoni delle crisi interne alle Chiese, quanto alla loro identità e all'affidabilità. Meno credenti e meno credibili! Il senso della fine fa da convitato di pietra nei discorsi intorno al cristianesimo occidentale. Certo, la realtà è sempre più complessa e differenziata rispetto ad analisi univoche. Ma è il clima percepito a fare da testo, reso ancora più forte dal confronto con i tempi andati, con una fede "ai trionfi avvezza", per dirla col Manzoni. 
Insomma, non ci sono più le stagioni di una volta! 
Ma siamo proprio sicuri che "una volta" fosse come ce l'immaginiamo ora? Alcuni indicatori sembrano confermare oggettivamente la regressione che percepiamo: prima c'era più partecipazione ai riti, c'era una più consistente presenza giovanile nelle chiese. Vero. Anche di Gesù i racconti evangelici riferiscono che era seguito dalle folle. Eppure, questa informazione, che leggiamo con la nostalgia dei tempi d'oro della fede, ci viene offerta insieme alla sua problematicità. Giovanni ci narra di come, quella volta in cui la folla voleva proclamarlo re, Gesù fugge come di fronte a una tentazione. E altri evangelisti riportano le dure parole del Maestro nei confronti della sua generazione: «Sono simili a bambini seduti in piazza, che gridano gli uni agli altri: "Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto"» (Lc 7,32). 
Quel predicatore itinerante per nulla preoccupato di accrescere la sua cerchia, venuto perché tutti e tutte abbiano vita in abbondanza, testimone di un Dio che non esige sacrifici per sé ma, al contrario, rovesciando l'immaginario religioso di sempre, è lui a sacrificarsi donandosi a noi, proprio lui il profeta affascinante, che può vantare un seguito che preoccupa i tutori della pace pubblica, eccolo dirci che le sue parole, in realtà, non riescono a suscitare gioia o smuovere il pianto. Che l'interesse intorno alla sua persona rimane debole, a dispetto delle apparenze, e perlopiù strumentale. Che, dunque, fin da subito la partita si gioca con quell'indifferenza che abita i cuori di tutti, anche di quanti provano a mettersi al seguito del Maestro di Nazaret. Che le folle, i riti possono convivere con l'indifferenza. E persino l'ascolto delle Scritture: ricordate i sapienti alla corte di Erode, interpellati a proposito della domanda dei Magi? E le dotte citazioni di Satana, mentre tenta Gesù nel deserto? 
Infatti, insieme alla questione dell'indifferenza per le parole delle Scritture, occorre fare i conti anche con i limiti di queste ultime. Perché la Parola può venire fraintesa; lei che si fa vicina fino a sussurrare nel nostro cuore, è allo stesso tempo lontana, espressa con un linguaggio che non è più il nostro; e se pensiamo di assimilarla immediatamente, per forza di cose la tradiamo, piegando l'alterità di quella Parola alla ricerca di conferme di quanto già presumiamo di sapere. 
Nel corso di questi venti secoli di cristianesimo siamo stati abili a usare questa Parola per i nostri scopi. E se l'indifferenza gioca sempre un ruolo principale sul teatro della fede, gli abiti che indossa nel presente sono stati confezionati da sarti credenti, che hanno fatto incetta delle parole delle Scritture per usi moralistici, politici, strumentali. Quanta indifferenza attuale nasce dallo stile giudicante e dai contenuti moralistici di tanta predicazione cristiana. 

Giuramento sulla Bibbia e politiche mortifere 

E che dire dell'uso disinvolto delle Scritture, peraltro appreso nelle nostre chiese, da parte di personaggi pubblici che la citano, di politici che su quel libro giurano, come di recente Netanyahu o Trump, traendone politiche mortifere? Potremmo dire: è la sorte delle parole, per loro natura fragili e soggette a usi impropri. 
O con linguaggio biblico: è il prezzo da pagare nel farsi carne della Parola, nel suo abbassamento e svuotamento fino a dirsi mediante la stoltezza della croce, in quello spettacolo di derisione in cui il Maestro di Nazaret esala l'ultimo respiro. Prima di morire, ci dice Luca, alle donne che piangevano la sua triste fine, Gesù dice che è su di loro e sui loro figli che devono piangere. 
Traduciamolo in lingua corrente: non lamentatevi tanto dell'indifferenza e del cinismo altrui che mettono a morte Dio; lavorate su di voi, elaborate il lutto della morte della Parola nei vostri cuori. 
Perché quella Parola, che pure, sebbene in pochi, continuate a udire nelle vostre chiese, risuona nelle vostre orecchie come lettera morta, come parola che viene detta ma non significa più. Sappiamo che l'elaborazione del lutto è impresa impegnativa, che dura a lungo. Che domanda di mettere in discussione l'esistenza di chi osa compierla fino in fondo. Che, a proposito delle Scritture ebraico-cristiane, chiede nuova curiosità, lavoro sui tempi lunghi, pazienza nel leggere. Invoca un'attenzione che non può essere ridotta all'assimilazione di contenuti religiosi. Qui, infatti, ne va della nostra vita, dal momento che la Scrittura pone a tutti e tutte la questione radicale: tu sai cosa significa vivere? Tu, che non sei venuto al mondo con le istruzioni per l'uso, hai il coraggio di porti il quesito esistenziale senza imboccare la scorciatoia del "così fan tutti"? 
Il senso di rimettersi a leggere le Scritture sta tutto qua. Ma perché avvenga, perché possa sorgere un nuovo interesse per questa Parola, occorre che noi credenti la strappiamo dall'essere una cosa di chiesa, linguaggio interno di chi crede, conferma dell'esistente o strumento per avvalorare le nostre vie, che non sono quelle divine. 
Occorre tornare ad ascoltarle e studiarle per misurarci con quel modo particolare di abitare la terra che in esse è narrato. Con quella vita buona che il mistero del mondo che chiamiamo Dio ha sognato per ogni vivente fin dalla creazione del mondo. 
Un ascolto che ci butta in un altro mondo, senza dimenticare le domande che sorgono nel nostro mondo. Un po' come a teatro: si apre il sipario e tu non sei più nel tuo mondo ma in quello di Goldoni o di Shakespeare. E l'unica tua preoccupazione è quella di entrare in quella vicenda, comprendere che idea della vita si sono fatta i personaggi in azione, seguendo l'insieme della rappresentazione, in tutti i suoi atti e non fermandoti a una singola affermazione. E alla fine, quando il sipario si richiude e tu torni al tuo mondo di sempre con ancora vive le immagini e le parole della rappresentazione a cui hai assistito, ecco che puoi operare il confronto tra quel vissuto e il tuo, tra quel modo di abitare la terra e quello attuale. Sarai tu a trarre le conclusioni, non i critici letterari e gli addetti ai lavori. 
Ma questo significa che ti assumi la responsabilità di porti la domanda: cosa significa vivere? E lo fai smettendo di girare attorno alle tue solite idee, provando invece a misurarti con una Parola altra, con una luce che giunge da altrove. Sapendo che la grande tentazione è proprio l'indifferenza. E che a fare la differenza è il coraggio di interrogare alla radice la vita. 



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